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Antologia critica

LORENZO FAVERO

[…] Questa, di Bergomi, è una mostra che merita particolare attento esame, ed anche, diciamolo subito, un elogio, in quanto l’Autore, non rivoluzionando la pittura, non dicendo cose nuove (il “Novecento” indicò i secoli XIV e XV come scuole di verace spiritualità e di autentica metafisica ed astrazione formale), segue con convinzione la via dell’arte figurativa, lui, giovane, vittorioso di ogni tentazione astrattistica (sarebbe del resto un ingenuo chi vi cadesse ora!) e di ogni richiamo all’ “informale”.
“Alla larga” sembra, dirci Giacomo Bergomi “da ogni stravaganza!”, seguiamo la buona e bella tradizione dei padri che cedettero dantescamente nella nepotanza dell’arte a Dio. È confortante notare che la figura e il paesaggio, in Bergomi, appartengono ad un medesimo stile: uno stile di essenzialità affermato sul disegno conciso e solenne. Il Bergomi fa crescere con ugual spiritualità disegno e colore: alla mestizia suggestiva delle figure descritte con ritmico e riassuntivo andamento si adegua il colore filtrato in una elaborata tavolozza, in una penosa macerazione degli impasti. Pittura di pensiero e, saremmo per dire, pittura sacra, anche quando il soggetto non appartenga all’argomento della liturgia.
Ma tutto diviene sacro quando si riferisca, meditando e pregando, ad ogni manifestazione della volontà di Dio, sia l’obietto il paesaggio oppure la creatura viva.
La forma è dunque decisa e sobria; il Bergomi, perché non ingenerassero senso di durezza, ha dato sagaci sfumature ai segni ed ai contorni, cosicché balza allo sguardo l’austerità di questi dipinti, non l’asperità.

Da Bergomi all’A.A.B., in “La Voce del popolo”, 24 ottobre 1959.


C. CANTY

[…] In possesso di una tecnica assai sicura, Giacomo Bergomi è un pittore profondamente umano e le sue opere ispirano un sentimento di commozione…

Da Giacomo Bergomi peintre de la douleur et de l’austérité, in “Le Progres”, 10 gennaio 1960.


H. FERRIER

[…] Questa mostra è una manifestazione artistica ad alto livello. Giacomo Bergomi non si preoccupa di mescolare sogno e realtà, di confondere il materiale con l’immateriale, di ricercare, sotto le apparenze corporali, facoltà morali, intellettuali e sentimentali di cui è composto lo spirito umano, di scoprire i misteriosi rapporti che si stabiliscono fra gli esseri e le cose…

Da L’exposition du peintre italien Giacomo Bergomi à la Galerie Plaine, in “La Tribune”, 14 gennaio 1960.


PIERRE DELATERE

[…] le sue composizioni sono assai ardite e si avvicinano, in particolare a quelle degli artisti che proteggeva P. Couturier, promotore della famosa cappella Plateau d’Assy e a quelle di Rouault. I suoi Cristi e le sue tragiche Crocefissioni, fanno pensare al Cristo di Germain Richier, forse più umano, meno disincarnato. Quanto alle sue opere profane, vi si trova un realismo magico che esteriorizza l’anima…

In “La Dépèche”, 15 gennaio 1960


 JEAN GABRIEL

[…] i primi visitatori della mostra hanno potuto apprezzare i suoi doni così personali, i colori assolati dei suoi paesaggi e soprattutto l’aspetto dei visi dei suoi personaggi e dei gruppi umani che egli fa vivere con particolare intensità d’espressione…

Da Le peintre Giacomo Bergomi est venu à Saint-Etienne, in “L’Espoir”, 17 gennaio 1960.


C. ABESSE

Scoperta di un grande pittore italiano… si ritrova nei paesaggi, l’espressione di una vera vita, una grande intensità di toni, il temperamento italiano, caloroso, con i colori brillanti, in un insieme sobrio. Nel sole e nella sensualità vi è qualche cosa di pudico. Una ventina le tele che s’impongono dopo una lunga osservazione, opere dove il pittore coglie gli esseri a bruciapelo. Tocca, in questi quadri, una vera grande arte, quella che giunge al cuore e nel medesimo tempo agli occhi…

Da Découverte d’un grand peintre itelien, in “Dimanche-actualités”, 18 gennaio 1960.


CARLO SEGALA

Espone in questi giorni alla Galleria San Luca il pittore bresciano Giacomo Bergomi. Si presenta con una serie di opere di recente fattura, che devono essere apprezzate sia per la calda ispirazione che le ha dettate, sia per la correttissima impostazione tonale.
Bergomi ha scelto una serie di motivi di ispirazione realistica e li ha calati in una unità tonale densa di cromatismi pacati, ma pieni di segrete life, di liriche commozioni. La luce e l’ombra che vivono nelle sue composizioni entrano nella materia coloristica, sostanziandola di una sottile e arcana tensione, dalla quale il soggetto risulta vivificato.
Morandi ed i novecentisti, ed una attenta lettura della migliore pittura italiana tra le due guerre, hanno permesso a Bergomi di raggiungere una maturità culturale ed espressiva veramente ammirevole.
Particolare segnalazione meritano i gruppi di contadini, le figurette dei mendicanti e certe esperienze ritrattistiche condotte con sapida conoscenza della materia pittorica.

Da Mostre d’arte. Giacomo Bergomi alla S. Luca, in “Il Gazzettino”, 31 ottobre 1960.


ELVIRA CASSA SALVI

Anno dopo anno, dalla prima volta in cui si presentò al pubblico bresciano, Giacomo Bergomi va scavando tenacemente la sua strada con quella pazienza assidua con cui la sua gente coltiva la terra.
Con serietà e applicazione egli tende a un progressivo scioglimento da certa scrupolosa, ma anche rigida preparazione accademica, un tempo su di lui incombente. Il suo sforzo si svolge tuttora entro un ben preciso e cauto orizzonte figurativo, segnato da suggestioni, le cui radici sono in grandi nomi del nostro ‘900. Si tratta di nomi che hanno attinto, fuori dagli schemi, un’autenticità, una concretezza terrigena e contadina oppure urbana popolaresca. Un Rosai, ad esempio (o anche certo Carrà talvolta o Sironi); un Rosai rifratto attraverso l’energico prisma d un toscano più giovane, il Farulli. Con inflessioni però e con tonalità più cupe, con linee più taglienti e nordiche, più consone alla natura settentrionale.
Il fatto è che superando i dislivelli, gli stridori, i contradditori sbalzi di stile, oggi Bergomi sembra aver guadagnato una sua coerenza e unità di forma e di stile. C’è uno scatto in avanti nel suo lavoro. Gli echi ancora marcati coincidono tuttavia con atteggiamenti congeniali e spontanei. Sono affinità elettive.
La fedeltà, l’attaccamento a un mondo umile e concreto, a una tematica desunta dalla vita quotidiana, da realtà umane e sofferte, hanno ammorbidito certa rigidezza del giovane pittore di Lograto. Si rivela ora in lui una sensibilità più mossa e modulata per il colore: le masse un tempo inerti e grevi, a strati compatti e talora urtanti, fermentano di accensioni e di passaggi prima ignoti, benché ancora qua e là un po’ costruiti ed esteriori.
La raccolta nasce e si svolge tutta intera intorno a un unico tema centrale; rioni poveri, vicoli, tetti vecchi; oppure periferie, fabbriche grige e desolate. Su questi sfondi qualche personaggio del repertorio populista: lavandaie, una “falena notturna”, vecchi al refettorio. In queste immagini sembra balenare qualche lampo fugace dal pittore dei paria e dei miserabili: un altro toscano, un viareggino anzi: Alberto Viani. Ma senza andar lontano si avverte qualche consonanza nostrana con il pittore valligiano: Garosio.
Ciò non toglie nulla all’amore e alla sincerità con cui Bergomi sente e vive i suoi argomenti (vedi per es. quelle figure di vecchi stanchi e avvolti di squallore in Anziani ai refettorio). Questo lievito di partecipazione umana convinta è il pegno sicuro di potenzialità e di sviluppi anche ulteriori.
Tanto che quella ricorrenza di un modulo un po’ uniforme – il paesaggio urbano shematizzato – già tende qua e là a una penetrazione più puntuale, e attraverso l’affinamento del colore espressionistico s’avvia ad una caratterizzazione più viva e concreta. Proprio l’unità, la sostanza di stile e di argomento sonole molle che determinano nel pittore un costante progresso e maturazione.

Da Mostre d’arte. Bergomi, in “Giornale di Brescia”, 18 maggio 1962.


CAMILLO BARBERA

Giacomo Bergomi viene dalla provincia bresciana: questo non è senza importanza per la definizione degli aspetti essenziali della sua pittura. Egli riassume il carattere laborioso e tenace, schivo di formalismi e tuttavia ricco di sostanza umana, della gente bresciana. E della provincia porta nei suoi quadri il candore del sentimento, l’entusiasmo, la forza istintiva.
Chi visiterà la sua mostra penserà, non è difficile prevederlo, all’espressionismo: ma si tratta d’una conquista personale, mossa dall’urgenza del sentimento, dagli interessi umani. I tipi che si muovono nell’arte di Giacomo Bergomi sono quelli della sua dura e faticata vita di uomo dalle origini campagnole; gente che del soffrire ha fatto una seconda natura. Questa visione dell’uomo ha accompagnato Bergomi anche fuori dal bresciano: si vedano gli arsi e dolenti pescatori di Ostuni. Lo stesso paesaggio è inteso e risolto espressionisticamente, si tratti dei vicoli deserti e tetri della vecchia Brescia o degli accecanti aggregati di case delle Murge. Persino quando una vena caricaturale, umoristica, come nella serie di quadri che hanno a soggetto i preti, s’insinua nella sua pittura, Giacomo Bergomi la esprime senza gioia, con un’intonazione di tristezza. C’è una protesta, in questa pittura: una protesta che attinge la sua forza dalla viva orchestrazione cromatica e dal disegno violento, oltreché dal soggetto populista. Ma una protesta che non ha violenza di ribellione, bensì una rassegnata e generosa mestizia. Si guardi a questo dramma con rispetto, quindi, quel rispetto dovuto ad una coscienza d’artista, che opera con purezza di intenti e con intenso sentire.

Da Galleria d’Arte “Il Camino”, Roma, 10-20 novembre 1962. Invito.


ARTURO BOVI

Il giovane pittore Giacomo Bergomi di Brescia che espone alla Galleria “Il Camino” di via del Babuino è indubbiamente un artista di talento.
Gli arsi e dolenti pescatori di Ostuni, gli accecanti aggregati di case delle Murge, gli ambienti di gente della campagna che del soffrire ha fatto una seconda natura. La sua protesta non ha la violenza di una ribellione pur nella viva e calda orchestrazione del colore e della immagine, ma una eloquente documentazione poetica.

Da Giacomo Bergomi, in “Il Messaggero di Roma”, 21 novembre 1962.


BRUNO MORINI

Giacomo Bergomi, pittore bresciano, presenta al “Camino” trenta opere di figura. Pittura sobria, densa di tono e dallo spatolato ampio ed essenziale, con brevi ma sostanziose campiture di bianchi. La tematica è fondamentalmente populistica: operai, bevitori, pescatori, vecchie casupole, mendicanti, volti dolenti di donne e di bambini. I personaggi, però, sono rappresentati con particolare intensità d’espressione e l’atmosfera è quella di una drammatica rassegnazione quotidiana, resa ancora più umana da una costante vena di humour.

Da Mostre d’arte, in “Il Giornale d’Italia”, Roma, 23-24 novembre 62.


CASSIUS

Decisamente, Giacomo Bergomi, il giovane e ottimo Artista bresciano venuto di recente ad esporre le sue ope­re a “Il Camino” di Via del Babuino, è il “pittore del dramma umano”; il narratore umano, triste, attraverso la sua “tela”, della miseria che affligge la gente povera, del dramma che affligge il cieco, il ricoverato all’Ospizio, della triste esistenza di creature colpite dalla malasorte.
Bergomi, che a Roma è tornato per la seconda volta (nel 1956 ottenne il “Premio Acquisto” alla Mostra Nazionale d’Arte Sacra), cui ha mostrato opera veramente di rilievo, lavori che hanno un valore artistico da prendersi in seria considerazione, sia per la particolarità della composizione che per la profondità di sentimenti, e soprattutto ha dimostrato di essere un Artista di grande temperamento e di indicativa sensibilità. Quell’alone di poetica tristezza che avvolge la sua tela, ed anche quella sfumatura di sarcasmo che appare in certi suoi lavori è di sapore triste, nasconde, o meglio mette in luce, tutto un profondo e sensibile sentimento di umanità e d’amore: di pietà verso cose e creature che hanno bisogno di un sostenuto morale forse più che materiale, di una voce amica prima di un aiuto non disinteressato, di un calore umano.
L’Artista, poi, compone in un modo del tutto personale, alla maniera forte e incisiva, e predilige il nero e il bian­co con vena di grigio, su figure e pae­saggi sempre in primo piano, con concessione ad altri colori. La sua pennellata, dicevamo, è alla maniera forte, ma armoniosa, di grande efficacia di piacevole effetto; tanto da non potersi dire di lui che sia “espressionista”, nel senso specifico della parola, perchè è anche ” impressionista”. Sulla sua tela, cioè, troviamo l’uno e l’altro in felice connubio, come il “Pagliaccetto” dove l’impressionismo della figura cede il posto all’espressione intensa del volto e della cornice che circonda la composizione in primo piano; come in “La fame soddisfatta”, una gura di vecchio davanti a un piatto su tavola scarna intensa di sentimenti e realtà; in “Lavandaie”, due donne al faticoso lavoro del bucato in una grotta, o sottoscala; in “La casa di Dio” (un ricovero per vecchi), quattro figure in triste e meditativa attesa; in “Abitazioni in Ostuni”, un gruppo di case di misero aspetto; e in “Pescatorello”, una figura di ragazzo con cesto senza pesce in triste attesa (forse che cessi la burrasca e torni la buona pesca), dove tutto è impresso ed espresso con uguale intensità e valentia dal giovane artista. La pittura del Bergomi ha l’impronta del reale, come certe sue figure di tono meno triste, ad esempio “Parroco paesano” e “Il fagotto del bucato”, con concessione espressionistica, o viceversa, come in quelle case di maggiore espressionismo “Cortile triste”, “Dimore decrepite”, e paesaggi “Rocca sullo sperone” e “Arabesco degli ulivi”.

Da Pittori alla ribalta. Giacomo Bergomi, in “Attualità della settimana”, a. VI n. 40-41, Roma 30 novembre 1962.


GIUSEPPE TONNA

Una balda franchezza, un genuino piacere del figurare e del dipingere, senza paure o perplessità che frenino la mano nell’affrontare lo spazio bianco di vaste tele, caratterizza simpaticamente l’operosità di Giacomo Bergomi, un vitale personaggio nell’ambiente artistico bresciano, pittore, tra i giovani, riconosciuto e ricercato. I suoi quadri piacciono per la chiarezza energica dell’impostazione, per i felici tagli della composizione, per l’esplicita leggibilità. Sono case e figure: le case sentite nel loro peso plastico, aggruppate ai piedi dei monti, hanno della realtà consueta e famigliare lo sporco dei muri e la rugginosa colatura che provocano gli sbattimenti della pioggia e i venti; ma con qualcosa, anche, di antico, di archeologico, che tanto innamora i visitatori, decise nella loro presenza favolosa o allucinata, in una vaga aura di Novecento che tanto piace qui a Brescia.
Le figure hanno volti dalle gote emaciate, tagli lunghi e sottili di bocca: nella loro generica uniformità sono la tipologia di una fissità di pena, di una tensine frustrata e amara. Ma voler cercare qualcosa di lombardo, l’aria delle cose di qui, sapore di verità nativa è una richiesta a cui Bergomi – stranamente, egli che viene dalla campagna – non risponde.
Tra la realtà e la sua volontà di fare si frappone come un velo, un diaframma di cultura. È a questa ragione che dobbiamo riferire anche il procedimento della fattura dei suoi quadri, da un punto di vista più propriamente pittorico. Bergomi ha usato con particolare insistenza la tecnica delle velature che danno una patina di antico alle sue figurazioni, accordando bravamente tutti gli elementi della composizione.

Da Le figure e le case di Giacomo Bergomi in “L’Eco di Brescia”, 30 novembre 1963.


JO COLLARCHIO

Fra la precedente produzione pittorica di Bergomi sulla quale m’intrattenni in occasione della recente “personale” a Verona (cfr. “BS”, n. 30, ott. 1963) ed il veramente consistente complesso di opere testé esposte a Brescia, vi è un notevole divario. Più mature, ragionate, complete quest’ultime a segnare un’altra decisiva tappa di questo alacre pittore nostro che onora Brescia per la serietà e l’impegno che lo animano e lo sostengono nella non facile ascesa verso una mèta ben definita. Malgrado un populismo evidentissimo, Bergomi non fa della pittura d’istanze o letteraria: e non v’è retorica alcuna neppure in tele quali “Ciechi” e “Passeggiata” ove il pericolo di un simile facile slittamento era più grave. Trovo che, pur conservandone la corposità, Bergomi ha affinato la sua pittura con l’adozione delle velature successive onde ottener gli effetti plastici e tonàli da lui desiderati. E, per chi sappia cos’è tecnica della pittura, il risultato conseguito è là a dimostrar che, per l’artista, la sua non è avventura o, peggio, brancolamento, ma ricerca sistematica e cosciente. Subisce ancora delle influenze Bergomi? Evidentemente sì: ma non sono influenze alle quali sarebbe comunque possibile sottrarsi nella fase di maturazione che il pittore sta, sia pur bruciando le tappe, attraversando. E’ materialmente impossibile sottrarsi – mi riferisco alla esperienza greca – a quel pàthos ellenico o ellenicizzante subito d’altronde da quasi tutti maggiori in ogni campo delle arti. La “Contadina greca” ed anche un “Bozzetto di testa” (f. c.) risentono un certo fondo-oro di tradizione bizantina: ma Bergomi disgela però bravamente ed umanizza a suo modo la fredda tradizione, in qualche caso fino ad azzardare con bella disinvoltura, com’avviene col rosso di Marte usato per la manica del fanciullo nella “Famiglia greca”. Ed è proprio quest’azzardo pittorico a testimoniare per la validità dell’arte di Bergo­mi. Se anche nel “paesaggio” il modulo non ha subito vistosissime variazioni quanto ad imposta­zione generale, rilevabile comunque l’adozione dallo sfondo paesistico – colline o montagne – per i suoi gruppi di case giocate alle maniera del “Novecento” sironiano, ragionamento che si ripeterà, imprevedutamente, anche in “Amor materno”. Rilievo, questo, che nulla toglie – anzi, tutt’altro! – alla validità della pittura, della ottima pittura di Giacomo Bergomi.

Da Galleria d’arte, in “Biesse”, a. III n. 31, novembre 1963.


ATTILIO MAZZA

Le tante esperienze hanno influito sulla pittura di questo artista. I colori hanno conosciuto toni nuovi; il disegno si è fatto più sicuro. L ingegno innato, insomma, si è sviluppato nel migliore dei modi. Si può veramente dire che oggi Giacomo Bergomi sia entrato nella maturità dell’arte, una maturità che gli è costata molte crisi.
La sua tavolozza non conosce difficoltà cromatiche, come il suo segno sicuro non si arresta davanti a nessun soggetto. I quadri che mi ha mostrato nello studio – vive e lavora da anni a Brescia – suscitano interesse. Sono tutte opere diverse
per soggetto ed impostazione, ma perfette nel loro racconto. Come ad esempio la tela sulla quale è raffigurata una pentola sul fuoco: un quadro pregevole non solo per disegno e colore (certi grigi-viola; certi tocchi, quasi turchini, indefinibili), ma anche per taglio. Chi mai potrebbe pensare ad un soggetto del genere?
E che dire delle case della sua Barco? Case coperte dalla neve che danno un senso quasi scultoreo alla prospettiva. Un senso di prospettiva che si ritrova nei dipinti dei paesi della Grecia, ove Giacomo Bergomi è arrivato ricorrendo, dal sud, la luce calda e limpida del sole mediterraneo. Sono per lo più cupole di chiese bizantine, che si stagliano, bianche, sullo sfondo di preziosi colori bruciati, i tipici colori della terra secca che tirano al sanguigno. Paesaggi, questi, dai quali non si toglierebbe più l’occhio, tanto incantano ed appassionano.
Ma i quadri forse più toccanti di Giacomo Bergomi sono quelli di figure: donne, vecchi, cardinali.
Cominciò proprio a dipingere riprendendo gli uomini della Bassa bresciana nei loro atteggiamenti tipici: contadini al lavoro, pensionati con la pipa in bocca. Una umanità vicina a Giacomo Bergomi, per naturalezza di sentimento e di vita. E questi soggetti egli ancor oggi non li ha dimenticati, anche se i vecchi non sono più quelli sereni della Bassa bresciana, ma quelli scarni dei ricoveri.
Questi quadri dalle dimensioni enormi – «Non ho’ mai voluto farli vedere prima. La gente difficilmente capisce», mi ha detto – esprimono un’angoscia kafkiana; un’angoscia che non è solamente l’angoscia di esistere. Queste tele contrastano stranamente con quelle piene di vita che raffigurano giovanette: volti di donna esotici, quasi tahitiani alla Gauguin, volti che esprimono tutto il desiderio di vivere. Ed è proprio in questi quadri, e specialmente nello studio anatomico dei nudi, ove balza evidente come l’istinto artistico si sia sviluppato. Perché queste forme hanno una loro solidità di costruzione, una loro realtà.
Dalla strage compiuta – Giacomo Bergomi ha bruciato molti suoi quadri, per dare, in polemica forse con certi suoi critici, un taglio al passato – si sono salvati due dipinti di cardinali. Sono volti pensosi, affilati dalle penitenze, che si stagliano su un prezioso fondo oro, chiusi nei loro simmetrici piviali.
Queste due tele, più di tutte le altre, mi sono rimaste impresse. E non tanto per il soggetto insolito, quanto perchè dimostrano l’inesauribile fantasia dell’artista. Il quale – ed è opportuno precisano – per dipingere, non ha bisogno nè dl critici nè di maestri, ma deve solamente attingere all’anima.

Luglio 1965

Da 28 Studi di artisti bresciani, Editrice Squassina, Brescia 1966.


GIANNETTO VALZELLI

Ai sentimenti, prima di tutto, senza dei quali non si fa della pittura – tanto meno, dell’arte – ma solamente dell’accademia, della sterile, arcadia, capricci vecchi e nuovi. È fedeltà, ma non acquiescenza, bensì spirito di ricerca secondo la più nobile tradizione, all’humus vivificatore; alle sorgenti e al paesaggio da cui nel Quattrocento il Foppa distillò i suoi stupendi gialli e nell’Ottocento, il Filippini, i suoi difficilissimi verdi; all’arco portentoso e alla sostanza di un filone qual è il lombardo nella consistenza del nostro più ricco e invidiato patrimonio.
Bergomi pittore della realtà, con un coraggio che fa la sua distinzione, in tempi nei quali dalla realtà si è avulsi un po’ per comodo e tanto perché usa giocare sulle vacuità. Un Bergomi attaccato alle vicende umane fin da quando avverte in sè la vocazione al disegno. Un Bergomi concreto per istinto, per slancio, teso naturalmente a ricreare un mondo che ad altri sfugge, docile a un richiamo in cui la fantasia sovverte il dato materiale; per un incontro nel quale a dettar legge ancora una volta è il soffio inventivo, avviene – si manifesta, si constata – il riscatto poetico.
Quella propensione per la figura d’impianto popolaresco, che a taluno può dare l’aìre d’una lettura in chiave di populismo, non si prende in Bergomi per intenzione retorica, motivo di protesta. Fin dall’inizio, dai ragazzini ante-boom col cappellaccio e gli zoccoli alle lavandaie sformate dal battere panni in riva al fosso e dall’artrite, ai vecchi del ricovero consumati dal male della solitudine, alle raccoglitrici di olive arcuate in una millenaria fatica del vivere, l’artista va perseguendo l’ampio ritratto di un’umanità che ci appartiene nel tempo. Un ritratto dove la partecipazione risulta sincera sopra il pretesto politico e le accensioni ironiche, i messaggi d’una parte e dell’altra. Una pittura che non urla, non vuole essere di proposito denuncia, ma appunto per la sua fermezza e forza – la rassegnazione di cui si illumina – acquista un più alto significato: è una cristiana, quindi antica e sempre nuova avvertenza. Bisogna prenderne atto, ce n’eravamo scordati. Fermiamo i nostri occhi disattenti sui Contadini del Sud che hanno conquistato solo adesso una bicicletta e passano su uno sfondo calcinato, nel tremolare della marina, nell’accecante polverizzarsi dei secoli.
La struttura stessa delle case, dei paesi di montagna che qui si ripetono in un divario solo di luce – dice tutto, anche filosoficamente Il sole dei poveri – rivela in Bergomi il desiderio di concentrarsi per un discorso che dal blocco murale, dal barbacane medioevale arriva al nucleo famigliare, alla povertà del desco, al focolare spento, alla cenere morta. Un presentimento del freddo verso cui precipitiamo socialmente col progresso?
Il discorso del pittore rimane aperto, in senso moderno, lungo una sequenza che tocca, a ritroso, le aie lombarde del Pitochetto e le brescianissime comparse – le masse corali – del riscoperto Romanino.

Giacomo Bergomi o della fedeltà, da Galleria d’Arte “La Vernice”, Bari 30 aprile-11 maggio 1966.


DIEGO VALERI

Il mondo pittorico di Giacomo Bergomi, quale luminosamente appare nei suoi quadri di paesaggio e di figura, riflette con fedeltà quello dei suoi sentimenti e pensieri di uomo e di galantuomo. (Questo esordio potrà sembrare del tutto ozioso. Ma quanti non sono, nella felice società artistica di oggi, quelli che sentono ad un modo e dipingono ad un altro, anzi dipingono “a una moda?”). Dire, ora, in un tentativo di definizione critica, che Bergomi è un realista, sarebbe, servirsi di una formula vieta e grossolana. Certo, egli non si estrania mai dalla realtà, né la deforma di proposito; tanto meno la dissolve nell’astratto e nell’informale. Pure, non se ne fa mai un servo, uno schiavo, un copista meccanico. Contemplandola amorosamente, egli la condensa in termini e lineamenti e volumi essenziali, ne mette a nudo l’anima poetica o, se preferiamo, il significato cosmico, la stilizza infine secondo un suo sicuro gusto decorativo.
Nello svolgimento di questo processo, che cronologicamente interessa gli ultimi dieci anni della sua attività, mi pare abbiano avuto importanza decisiva i contatti del pittore (un lombardo di pianura, un figlio di terra grassa) con la natura aspra, di crudo sasso e di semplice e vigorosa umanità, della Grecia “minore” e delle nostre Puglie.
Sia o non sia così, Bergomi è giunto a un suo felice momento di sintesi figurativa ed espressiva: a un punto che già può essere considerato di arrivo, ma ch’è più giusto considerare di partenza verso mete sempre più ardue e luminose.
Venezia, 30 Ottobre 1967

La pittura di Giacomo Bergomi, da A.A.B. Galleria d’Arte, Brescia 18-30 ottobre 1967. Invito.


DINO BUZZATI

… Dimmi, dimmi, che cosa c’è di buono? – Vuoi che te lo dica?… Tozzi, per esempio… Treccani… Cassinari… Banchieri… Aimone… Bongiovanni Radice… Novello… Stradone… Steffenini… Somarè Guido… E poi, per quello che ricordo, De Rocchi, Carpi, Bergognoni, Bergomi…

Da Mostra d’autunno, in “Corriere della Sera”, 27 ottobre 1967.


C. MILLET ET VERA MANUELLE

Giacomo Bergomi è, indubbiamente, un pittore espressionista di grande efficacia prendendo la sua ispirazione alla soglia della realtà.
Egli realizza con mano maestra le sue opere che appartengono alla nuova pittura. Particolarmente interessato al dramma sociale e umano, l’artista, la cui personalità sgorga violentemente dalle tele che crea, non trascura il lato umoristico degli avvenimenti osservati. In una orchestrazione di colori solari, egli fonde l’insieme delle sue creazioni in un magico realismo che mette l’anima a nudo.

Da L’Art à l’Etranger. En Italie. Premio de Suzzara. Giacomo Bergomi, in “Le revue moderne des art set de la vie”, 1 aprile 1968.


ALBERTO MORUCCI

Bergomi ci sembra ora dipingere con la luce. Mai, come in questa sua ultima mostra, alla Galleria S. Michele, questa sua qualità si è resa accentuata ed efficace, tanto da creare uno spettacolo fiabesco che, se è presente in tutta la sua nuova produzione, si evidenzia ancor più nei soggetti con case e vecchi muri. Qualcosa è dunque mutato in Giacomo Bergomi, pittore che deve la sua continua ascesa a un sofferto bisogno di rinnovamento interiore, ed è appunto il voler cogliere l’essenza dei mondo e delle cose attraverso un perpetuo raffinarsi.
Ciò lo porta inevitabilmente non più al semplice e mnemonico ricordo di osservazioni e di sentimenti vissuti, per esempio nei suoi viaggi in Grecia e nel meridione, ma sempre più verso l’interpretazione pura della sua fantasia, riproposta sulla tela in termini nuovi, se pur i soggetti rimangono simili per scelta volontaria.
Nelle figure, soprattutto, non è solo la forza del dramma che ha vitale esistenza, quel dramma già più volte sottolineato nella pittura di Bergomi, ma, nelle figure medesime esiste ora una universalità umana, matura di suggestioni intense per cui l’approfondimento istintivo e intellettuale dell’essere giunge a conclusioni indubbiamente più macerate e più compiute.
Si notino le vecchie contadine, le lavandaie e le figure femminili in genere, in cui anche la sintesi risolutiva del segno e del colore, assai contribuisce a rendere più vera la loro espressa intimità.
Così nel paesaggio Bergomi ha intensificato il suo sforzo interpretativo, sensibile nei toni di una personalissima tavolozza, capace di esprimere una liricità emozionante in ogni pagina del suo vasto racconto.

Da Galleria S. Michele, in “Biesse”, a. IX n. 97, novembre 1969.


LUDOVICO PAGANI

Parla a scatti, con brio e porge le sue impressioni, le sue idee con franchezza e immediatezza. Il suo non è uno studio di un pittore à la page, ma sembra una soffitta parigina, un pò bohemiennecon quel suo svagato disordine, uno scaffale ripieno di libri, un sofà fine ottocento, alle pareti alcune ceramiche di stili ed epoche diverse, vasi e padelle di rame; per terra, accatastate, una diecina di tele finite e da finire; sulla sinistra, accanto all’unica finestra, il suo cavalletto e la sua tavolozza con colori sparsi dappertutto.
E’ qui che il giovane eppure maturo pittore bresciano Giacomo Bergomi dipinge.
Nato nel 1926, mi dice di avere studiato per alcuni anni con il pittore Pasini, ma poi per migliorare e sviluppare la sua arte decide di andare a studiare a Milano, alla scuola d’arte privata Cimabue ove sostava per un breve periodo (circa cinque mesi), poi, convinto che quello non era il suo posto, frequenta il corso di pittura regolare all’Accademia di Brera.
Non l’ho visto dipingere, ma lo immagino davanti al cavalletto, tutto preso dalla sua creazione, che dovrà nutrire di colori assoluti e complementari, di idee, di fantasia, di verità.
Si inoltrerà nel figurato e nella materia della composizione, nelle ombre, nei toni, nei volumi, nelle linee e nei segni con la stessa foga e con lo stesso entusiasmo che adopera per parlarmi della sua vita, dei suoi viaggi, che lui considera indispensabili per ogni artista, pittore, letterato, musicista che sia.
Mi dirà infatti che ha viaggiato non poco, che ha visitato il Medio Oriente, la Grecia, la Turchia, la Jugoslavia, la Bulgaria, la Romania, la Svizzera, la Spagna, la Francia e che recentemente ha vissuto per due mesi in Ecuador.
«Qui» mi dice «ho trovato il mio mondo pittorico. Da quella lontana terra ho riportato sulla carta circa 700 schizzi, che vengo via via trasformando in quadri.
In quel paese c’è sofferenza, miseria, e c’è da stupirsi come tutta quella popolazione possa vivere in quelle condizioni; però c’è anche tanta schiettezza nell’uomo e nella natura; questa non è contaminata dall’uomo.
Vi ho trovato soggetti stupendi, colori meravigliosi, quasi fiabeschi, e figure superbe di donne, identiche a quelle che ritraeva Gauguin a Tahiti
».
Quale è stato il suo primo amore in pittura?
«L’impressionismo» mi risponde.
Guardando i suoi dipinti, quelli fatti prima del viaggio ecuadoriano, mi accorgo infatti di questo suo ancoraggio; ogni artista deve rimanere fedele ad un indirizzo pittorico che più lo ha infiammato, deve insomma qualificarsi, come ogni cittadino deve per forza di cose seguire un proprio ideale politico o una dottrina religiosa.
«Sa, all’Accademia ho avuto come maestri Franchi, Carpi, Salvatori, Domenico Cantatore e CarloCarrà».
Riguardando i suoi quadri mi vengono in mente le parole dette per Carrà da Alberto Longhi in un suo scritto «la natura rappresentata non si manifesta più irresponsabilmente come le lancette dei secondi, ma per la bocca, invisibile, grave, pausata del proprio autore».
In questa pittura incontriamo per l’appunto la figura umana, rappresentata in chiave di evento elegiaco, circondata da una atmosfera morbida, quasi velata della natura e del paesaggio, la città, il paese; il villaggio, uno scorcio di case, una stagione che passa.
La verità è per l’artista non tanto il fatto di interpretare l’evento attraverso la deposizione e la calcificazione dei colori, quanto di vivere questo evento, questa realtà attraverso una diretta partecipazione dell’animo, respirando la sensazione ed il fruscio intimo delle cose.
E proprio nell’Ecuador, in questa depressa repubblica sud-americana, lui mi dice di aver vissuto, più emotivamente che in qualsiasi altra parte del mondo, questa verità pittorica,
La sua composizione “l’indio”, del quale è possibile vedere la riproduzione in una delle tavole fuori testo della rivista, è la dimostrazione di questa sua attuale tendenza, volta a condensare sulla tela i sentimenti primi che si propagano nello spazio ristretto o macroscopico della realtà e del sogno, come echi di figure antiche, simili a quelle divine quattrocentesche del Masaccio e del Giotto, che il Bergomi dichiara di amare e di venerare.
Ora mi mostra una ventina di figure di indigeni dell’Ecuador, facenti parte del primo ciclo della serie dedicata alla “quotidianità” del popolo ecuadoriano, così nobile, così dignitoso eppure così misero ed infelice.
Sono un insieme di figure del popolo, della classe più misera degli indios, che vivono il passaggio del giorno con quella carica di apatia necessaria per non farsi piegare dai tragici eventi che ivi si susseguono senza posa.
In queste tele i toni dei colori, le membra degli uomini, le forme procaci delle donne, i primi piani del paesaggio si fondono magicamente per comporre mirabilmente il suo racconto, che nel tono, nei timbri e nei volumi sembra ricalcare il modulo artistico usato dai nostri quattrocentisti.
In questi quadri egli sa unire il suo tormento interiore con le percezioni esterne; l’assoluto del sensibile esplode, pur amalgamandosi nella tela in una confortante, riposante soluzione tematica contemporaneamente al circuito che collega l’artista e l’amatore d’arte al mondo circostante, fatto sempre, è vero, di piccole cose, di terra, di mare di sole, di avvenimenti, di volontà umana, ma che, secondo la sensibilità propria di ogni singolo artista, può apparire come l’ultima ed unica soluzione visiva possibile, degna di essere percepita e realizzata pittoricamente, per essere poi vagliata e sofferta da noi che rimaniamo al di qua del quadro.

Da Giacomo Bergomi, in “Scena illustrata”, a. 86 n. 4, aprile 1971.


LUCIANO SPIAZZI

Mondo morale, tutto contadino, l’artista va oltre il contingente per mirare alla condizione prima, essenziale, dell’uomo legato alla terra gleba: la lotta dura per l’esistenza, la casa come un tutt’uno con la campagna, stesso colore e stessa ombra. Estraneo a Bergomi il mondo della civiltà moderna. Nessun segno del potere industriale, solo una bicicletta appoggiata all’albero o al muro cotto dal tempo.
Naìf l’artista bresciano? Fino a un certo punto. In realtà egli è preparato, il suo sforzo espressivo ha ascendenze culturali: da Giotto a Cézanne e attraversato il Novecento verso un realismo che non ha nazionalità ma tende a diventare fatto terrestre.
La luce di Bergomi: a volte incantata e un poco magica. Gli occhi delle sue figure: visti di fronte, totalmente aperti. Case ed uomini forzati dentro uno schema di stupore.
Il suo primitivismo si riallaccia alle tensioni prime del nostro secolo. Oltre la cultura moderna, verso le civiltà antiche, al ritrovamento di una forma talmente significativa e piena da offrire la struttura interiore del mondo. Picasso è partito da lì. Delle maschere antiche c’è nei personaggi di Bergomi l’icasticità incisiva, l’assenza di pittoresco, di tiepidezze, il silenzio o la smorfia fissati in immobilità assoluta. Si perdono le distinzioni tra questo e quello (le statuette negre come i santi bizantini), i medesimi segni che sempre si rincorrono: mani uguali e piedi uguali, lo stesso gesto impietrato, un medesimo sguardo. Si differenziano i ragazzi nel gesto più sciolto, ma rappresentano il momento bizzarro, perché libero, della vita. L’indios come il contadino lombardo abbraccia i suoi animali domestici in un gesto di comunione totale con la natura: contadino come montagna, come fiume, come albero…
Tensione acuta alla sintesi. Una lotta sovente aspra per stringere in pochi elementi immagini definitive.

Da L’Ecuador di Giacomo Bergomi, Galleria A.A.B., Brescia 13-25 novembre 1971. Invito.


GIANNA PAGANI PAOLINO

C’è nel cuore di ogni artista una parte più scoperta, più sensibile, quindi più indifesa e più facile a commuoversi e a svelarsi per farsi spiritualmente interprete dell’umana natura nell’essenza del mondo.
Tale è il caso di GIACOMO BERGOMI, che scopre sé stesso a contatto dell’uomo che soffre e lotta per la sua sopravvivenza.
Giacomo Bergomi fa della sua pittura uno studio psicologico dell’uomo colto nella sua più pura autenticità ancestrale. Nelle sue tele non troviamo mai divagazioni di idillica quiete, la sua vigile attenzione è rivolta costantemente all’uomo e alla sua sofferenza. Gustave Mereau esortava i suoi allievi a trascurare la natura perché «essa per l’artista non è che un’occasione per esprimersi. L’Arte è la ricerca ostinata, con i soliti mezzi figurativi, del sentimento interiori». Nulla di fantastico, infatti, troviamo in Bergomi, sono lungi da lui il preziosismo, l’artificiosità, la concettualità, ma solo un puro realismo plasmato dal suo sentimento si dispiega in tutta la sua drammaticità espressiva.
In tutte le tele del Bergomi si nota il medesimo impegno di portare alla luce la sofferenza primitiva dell’uomo: un primitivismo che gli nasce dentro e che a contatto con la realtà che lo squassa, denuda e scarnisce il linguaggio pittorico, s’evolve in un realismo maturo, incisivo, caratterizzato da visi di uomini colti nella loro ieratica compostezza drammatica. Puro e originalissimo il suo dialogo si snoda negli atti consueti degli indios dell’Ecuador con una sincronologia d’effetti ritmici e d’intonazione lirica.
In questa terra egli ritrova accenti primitivi veri, umani che la società odierna non conosce più e come un canto di grazia gli fiorisce dentro e gli fa svelare sulla tela il suo più riposto “io”.
Ed egli è come sorpreso, dimentico, estraneo a sé stesso e preso da questa musicalità compone il dramma lirico dell’uomo su queste immense estensioni, ove l’indigeno specchia la sua supina soggettività.
Il suo dialogo è un lungo itinerario stilistico nell’auscultazione del cuore di questa terra per carpirne il segreto e svelarlo al resto del mondo.
Il Bergomi non dipinge per diletto, la sua pittura è un impegno morale per porci dinanzi a una verità scottante: la vita degli indios dell’Ecuador.
Le sue tele sono diari, narrazioni scabre del modus vivendi di questi contadini. E’ l’uomo che parla, che accusa attraverso le tele del Bergomi la società del consumismo, del progresso, che ignora l’altra faccia della medaglia di una umanità rattrappita nella sua antica miseria.
Il dramma umano torna con accenti personalissimi nel pennello di questo valente Maestro bresciano per farsi promotore di un messaggio di umanità e di civiltà.
La sua protesta sociale diviene letteratura nella squisita sensibilità pittorica che sa carpire per folgorazione mistica il racconto quotidiano di questa povera gente, che sotto i suoi occhi denuncia la più terrificante miseria. Affanno, spasimo tristezza prendono l’anima dell’Artista e il suo occhio indaga, scruta i muti volti, lo stupore innocente di due nere iridi, il pianto di un bimbo, il sonno, la veglia degli uomini per trasferire nella tela l’essenza più distillata dell’Ecuador e in questa trasposizione della sua anima nei dolore dell’indios. Il racconto del Bergomi si fa intuizione lirica e il pennello esalta nel canto del raffinato cromatismo il suo accorato grido di preghiera.

Da La sofferenza dell’uomo nelle tele di Giacomo Bergomi, in “Il pungolo verde”, a. XXVI n. 9, ottobre 1972.


GUIDO STELLA

Il percorso della pittura di Giacomo Bergomi è unilineare, senza incertezze interiori od esteriori, tentativi in direzioni multiple, sperimentazione di materie, di linguaggi diversi. Tutto in lui ha un sapore, un richiamo agreste, artigiano: pittura ad olio e nella maniera classica di preparazione ed effettuazione, disegni a carboncino, ad acquarello. Nulla di straordinario, nulla che non appartenga alla tradizione più consolidata, più italiana. Si direbbe quasi che egli – come invece ha fatto – non abbia compiuto gli studi in scuole dove si viene a contatto con l’arte (con le arti) contemporanea. Invece Bergomi ha conosciuto bene il mondo artistico contemporaneo Se è rimasto caparbiamente fedele, con monotona ossessione che mostra semplicemente la profondità della sua sensibilità e dei suoi sentimenti, ad una maniera di dipingere iniziata sin quando era un ragazzo e si gettava con foga sui colori e sulle superfici bianche che gli si presentavano, non lo ha fatto per ignoranza, per un limite che non ha saputo superare.
Il suo mondo della “Bassa Bresciana”, mondo di pianura e di nebbia, di povertà e di pazienza ha trovato in Bergomi il suo interprete, il suo popolare poeta. Sin dall’inizio la pennellata larga e generosa, l’accordo semplice del colore steso su grandi superfici; una figurazione piena e tradizionale senza alcuna complicazione intellettualistica connotano il lavoro di Giacomo Bergomi.
Si pensa a Rosai, ai pittori del “Novecento”, ad un gusto strapaesano che fu degli anni anteriori a questa guerra. Si pensa pure ad un altro pittore, non della Bassa ma di una Valle bresciana, della Val Sabbia, Ottorino Garosio, per il gusto estremamente, immediatamente realistico: una traduzione provinciale del neorealismo nazionale, un realismo che si richiamava però sempre al grande filone lombardo e bresciano. Bergomi non ha mai interrotto questo contatto con la terra, con la gente della terra; si potrebbe dire che la città – come invece è avvenuto per un altro pittore della sua generazione e suo conterraneo, Luciano Cottini – non è mai penetrata nei suoi quadri. Anche qui ci pare che siamo davanti a un senso intelligente del limite; il pittore non fa quello che avverte non essere il suo mondo, la sua ispirazione autentica, il suo interesse primo e genuino. Pittore d’istinto, Bergomi ha pure l’istinto dei suoi limiti, delle sue possibilità, delle dimensioni dei suoi strumenti espressivi.
Davanti all’ultimo Bergomi, quello che conoscevo da alcune grandi Mostre mi era rimasta però sempre una impressione, un dubbio che non contraddice a quanto ho scritto: che Bergomi fosse da comprendere e da valutare solo entro questo spazio provinciale come uno che non si era mai misurato e non si sarebbe misurato con i problemi ed il linguaggio dell’arte contemporanea nazionale ed internazionale per amore di un suo preciso, tranquillo mondo dove aveva scoperto una sua personale sigla che non avrebbe mai abbandonato.
Ora Bergomi si è recato più volte nell’America latina, nell’Ecuador e nel Venezuela: sono state esperienze quanto mai feconde sotto l’aspetto del lavoro. Come quantità, ma anche come qualità. Per il pittore è stato un illuminare la sua identità, un riscoprire le proprie radici in un’altra terra, diversissima da quella natale eppure simile ad essa in alcuni valori fondamentali, universali: la povertà, la bellezza, la semplicità del vivere, la durezza dell’esistenza, la bontà del cuore.
Il frutto di questo incontro con un mondo analogo nella enorme diversità è stata una pittura solo apparentemente in tutto eguale a quella del periodo esclusivamente bresciano: Bergomi non ha ricercato motivi esotici, non ha ceduto nemmeno a tentazioni polemiche di gusto sociologico e politico. E’ rimasto il testimone, il pittore che ritrae una data realtà, facendone emergere i valori che lo interessano. Però Bergomi che non è mai stato un esteta non lo è nemmeno ora. E soprattutto un pittore che ha approfondito, con estrema energia, i valori della forma, del colore, della linea, facendo contemporaneamente oggetto di questi valori – trovandoli in essa una realtà umana che lo ha afferrato con una suggestione eccezionale non a caso si ritrova in lui una larga eco della grande pittura ad affresco latino-americana, tutta esposta in luce meridiana, mi pare, in definitiva, che questo caso di un pittore italiano, lombardo, che è sceso in profondità entro un mondo che oggi ci interessa tutti sul piano umano, senza perdere affatto le sue originali caratteristiche ma accentuandole in maniera notevole sia da sottolineare per una sua esemplarità. Bergomi ha superato la prova, quel limite che temevamo si fosse per sempre prefissato.
Ha conosciuto altri mondi, altri linguaggi: è rimasto se stesso, con l’occhio dell’anima fisso ai suoi fratelli maggiori, un Giotto, un Masaccio, un Romanino. Nella densa semplicità del suo linguaggio, Bergomi ci raggiunge forse con una incidenza maggiore di tanti pittori molto più sofisticati ma meno fedeli alle passioni del cuore e della fantasia.

Da Giacomo Bergomi, in “AStudio”, a. IV n. 4/5, aprile-maggio 1975.


ELIO BARUCCO

Un pittore è un personaggio?
Se si parla di Giacomo Bergomi, 50 anni, padre di un bimbo di 22 mesi, Stefano, la risposta non può che essere affermativa. È veramente uno dei «bresciani del nostro tempo. Come l’industriale che dal nulla ha creato le sue aziende e le ha potenziate ed ha costruito un impero finanziario, così Bergomi, che vendette il suo primo quadro a Milano in piazza del Duomo, nel lontano 1957, per cinquemila lire, ha toccato con la sua arte istintiva che appaga prima d’ogni altra cosa se stesso ha realizzato qualcosa, quel qualcosa in più che gli concede il diritto di entrare nella Galleria dei bresciani dei quali la gente parla e parla diffusamente.
Non è un pittore qualsiasi e non semplicemente un pittore.
«Mio fratello andò frate per vocazione, io credo di avere per vocazione cominciato a dipingere. C’è sempre qualcosa che mi brucia di dentro quando mi metto davanti ad una tela e impugno i pennelli. Dipingo perché cosi mi va, perché sento che tutto il mio spirito si muove, quando sulla tela traduco in immagini e colori le mie sensazioni». Giacomo Bergomi parla a scatti, non sta fermo un attimo. Lo dobbiamo quasi rincorrere per trattenerlo, ogni volta che finisce di pronunciare una frase, perché ogni frase ha per lui quasi il sapore d’un concetto compiuto e di un discorso finito. Risponde e se ne va, sembra sempre sui carboni accesi, i suoi cinquant’anni sono il niente di quel ragazzo che è rimasto e che continuerà a rimanere per chissà quanto tempo ancora.
Personaggio, a Brescia, Giacomo Bergomi lo è diventato di colpo. Il perché non lo sa nemmeno lui, ma forse è per quel suo carattere da orso, da introverso, scontroso figlio delle campagne, per l’humus che ha respirato dalla terra della sua bassa, così contrastante con la suggestione struggente delle tele che realizza e che hanno la violenta potenza dell’immediatezza e della realtà.
È un romantico. La gente guarda i suoi quadri e imma­gina un pittore fatto così e così, tutto un tipo particolare. Poi arriva lui, con la maglietta girocollo e i calzoni di fustagno, all’inaugurazione d’una sua mostra e se ne sta in un angolo e nessuno sa che quei quadri sono suoi e quando il gallerista lo cerca per presentarlo a tizio o a caio, ecco che Bergomi sparisce, e ci vuole del bello e del buono per farlo ricomparire alla ribalta.
«Dicono che la mia è una pittura sorpassata, così come anni fa dicevano che era una pittura difficile da capire. Cruda, brutale, delicata, e poi la critica, buongiorno. Io dipingo un quadro, lo guardo, quando l’ho finito sono a pezzi, lo soffro, vorrei lacerarlo con le mie mani per il tormento che mi ha procurato, ma io dipingo quel che sento e gli altri gli altri, dicano quello che vogliono. Così ho cercato orizzonti più vasti, i miei contadini della bassa o le donne dei lavatoi dell’alta Vallecamonica, ad un certo punto avevano avuto tutto il mio amore. Io sto bene con la gente semplice, povera, contadina come me, è la mia gente, gente che amo».
Gli orizzonti più vasti li ho cercati in Sudamerica. Un giorno ho detto “parto” e sono andato in Venezuela, in Ecuador, ho vissuto per mesi nelle foreste, con gli indios. Che bravi! Non sanno cosa sia una cambiale, non ce n’è uno che muoia d’infarto. Ho fatto quattrocento studi d’ambiente, ho dipinto come un pazzo, poi volevo portar via i quadri, tre me li hanno comperati a Quito e sono finiti in due musei Nazionali, ma non mi va di dirlo, che m’importa!».
«Si può sapere cos’è che le importa della vita?».
«Beethoven, Chopin, Papini, Mozart, Moravia, Kafka, di queste cose mi importa. E della vita per ciò che dà. Non la penso come Pavese o come Hemingway, ma la vita è sof­ferenza è amore. Ma ha ragione Scohpenauer, quanta amarezza in tutte le cose, questa civiltà è al tramonto e adesso devo andare…».
« Un momento, per favore. Lei è personaggio a Brescia, non c’è dubbio. Quando se n’è accorto.?»
«Io? Mai. La gente non mi guarda neanche quando passo per strada e quando faccio una mostra e mi dicono bravo, bravissimo, non so mai se dicono sul serio o se fanno per complimento e allora che personaggio sono?».
«Pure quando si dice Giacomo Bergomi vengono in mente subito quei cieli cupi, quelle albe cariche di malinconia, quei volti segnati dalla fatica, quelle donne dal volto scabro e dall’espressione sensuale. La gente a Brescia, e non solo a Brescia, sa bene chi è Giacomo Bergomi.»
«Beati loro. Io non so chi sono. Basta così. Ho dei colleghi che stimo Stagnoli, Mottinelli, Caprioli e anche gli altri. Tutti più bravi di me. Io sono fermo all’aratro, al tramonto, alla pianta con le radici sprofondate nella terra. La terra. La sbriciolo nelle mani, la sento con il suo profumo, noi stessi siamo la terra. Posso inginocchiarmi a pregare, quando il sole tramonta e sembra penetrare nelle zolle lontane. È poesia stucchevole, questa? Pazienza, pazienza, io non sono il personaggio che può fare notizia. Non sono che Bergomi. E basta».
Parlando, Bergomi freneticamente cammina su e giù. Suo malgrado, personaggio lo è. Sempre alla ricerca di se stesso, pirandellianamente.

Da Un personaggio anticonformista, in “La Notte”, 23 ottobre 1975.


M. DAMON BONNEFORD

Le sale della Libreria Plaine ospitarono, nel 1960, un giovane pittore di Brescia, Giacomo Bergomi, portatore di una storia personale alla quale non ha ancora finito di aggiungere capitoli.
Bergomi si ripresenta infatti nello stesso luogo, con opere che sono espressione delle stesse ricerche, della stessa instancabile esplorazione: il suo paese della valle del Po, i contadini che l’abitano e dai quali egli proviene, e da cui dice ha attinto il suo nutrimento.
Le caratteristiche, i costumi, le usanze di questa regione italiana lo hanno a loro volta formato.
Ciascuno rende all’altro ciò che gli deve ed è senza dubbio questo che dà alla pittura di Bergomi il suo potere emotivo.
Quando parte all’ascolto dell’America del Sud è col pensiero di accostarsi a una realtà vicina alla sua: “C’è una cultura comune di tradizioni, di miseria, di modi di vita tra i contadini poveri di Brescia e i peones dell’America del Sud”.
Per Bergomi, questo viaggio attraverso il tempo e lo spazio risponde alla necessità “di una ricerca contadina del tempo perduto”.

L’ albero degli zoccoli
Il pittore ha installato il suo cavalletto in uno scenario fatto apposta per rispondere al suo approccio spoglio di ogni intellettualismo.
È la vita quotidiana che egli traduce, come l’ha tradotta Olmi nell’indimenticabile “Albero degli zoccoli” a cui il visitatore della mostra, per poco che abbia visto il film, fa costantemente riferimento: le stesse povere case, dai materiali rugosi che si disgregano, lo stesso sguardo sulle stagioni e sui giorni, con i gesti quotidiani, per i lavori rituali, la stessa tenerezza per delineare la vita dei poveri nell’ambiente contadino dove tentano di sopravvivere.
Il pennello di Bergomi intriso “nel sangue che scorre nelle mie vene” indugia sulle vecchie porte dei granai e delle fattorie, scova un paio di zoccoli o di scarpe vecchie su gradini sconnessi, scopre la scodella del cane, la bicicletta posata contro il muro, segue l’ombra dei vecchi fabbricati esausti, traccia, talvolta comicamente, i muri dove il filo a piombo del muratore stato sviato. E il colore si mescola, riproduce ocra e verdi, il biondeggiare dei paesi disseccati dal sole, ma contornati dagli alberi per ritagliare i suoi zoccoli.

Il grido della maternità
Il registro cromatico si trasforma sotto i cieli sudamericani. I toni caldi si oppongono, vincitori, ai colori più freddi. Ma là, sono i visi che delinea il pittore, quelli di ragazzi che giocano e cantano al suono di un’armonica, quelli di adolescenti dagli occhi obliqui che sembrano cercare oltre lo spazio, o di una “maternità” molto bella il cui grido silenzioso sembra squarciare la tela. Pittura aneddotica, rassicurante, smanieranno i dogmatici dell’arte concettuale. Senza dubbio, ma questo grafismo talvolta imprudente, questo intento di adattarsi alla realtà e all’apparenza sono più che un gusto per il figurativo. Essi testimoniano il radicarsi di un uomo in una civiltà che domani si dileguerà come superata. Ma ancor più essi esprimono il difficilmente esprimibile: la solidarietà vissuta di un pittore verso quelli che non hanno né potere, né sapere.

Giacomo Bergomi: alla ricerca del tempo perduto. Il gemellaggio tra Bergomi e Olmi dell’”Albero degli zoccoli”, dalla stampa francese, 1 febbraio 1979.


N. MICHALON

[…] testimone di una civiltà che lentamente scompare, Bergomi dipinge questi contadini dimenticati la cui vita si divide tra miseria e dignità, ritmata dal susseguirsi delle stagioni.
Giacomo Bergomi fissa le immagini della sua infanzia, ma gli zoccoli di legno sembrano posati davanti alla porta per tutta l’eternità, e il tradizionale mortaio dei villaggi mediterranei sembra dimenticato per sempre sui gradini screpolati della scala di pietra.
Egli ritrova i caratteri rudi che il tempo ha saputo lentamente addolcire e le linee al limite dell’equilibrio delle sue case fluttuanti sotto il sole.
Dal suo viaggio in Sud America, il pittore ci riporta gli sguardi dei peones, gli sguardi velati delle donne, quelli interrogativi dei fanciulli, e la luce cruda e senza concessioni il cui riverbero fa maggiormente risaltare la fissità di questi sguardi.
Ma è soprattutto del paese della sua infanzia che Giacomo Bergomi ci fa il più bel racconto… con nostalgia ma senza disperazione, egli fa rivivere col suo pennello le immagini di un passato che si spegne dolcemente senza grida, senza rivolta… uno ieri del quale egli è figlio, un tempo in cui la rudezza nascondeva il pudore di esistere, e le cui radici non saranno mai recise:
«Eccomi, un po’ perduto nei tempi moderni, a respirare ancora e sempre l’aria del mio passato».

Perduto nei tempi moderni, «… a respirare ancora e sempre l’aria del passato», dalla stampa francese, febbraio 1979.


GINO BENEDETTI

Bergomi possiamo considerarlo ormai un “celebre”, un “classico” tanti sono stati i riconoscimenti ricevuti. Bresciano, non ha voluto chiudersi dentro le cinte della sua città, che ha pure nobilmente scoperte. Si è così lanciato alla ricerca di mondi più affascinanti per costumi e colori ritraendone motivi di una espressione premente. Ecuador, Venezuela specialmente, sono state per Bergomi mete di spalancato vigore, che gli hanno offerto nuove libertà e rinnovati impulsi creativi. I murales devono essere stati amici al nostro, se guardiamo alla ampiezza suggestiva delle sue figure e dei suoi paesaggi, relegati in una fatica sempiterna che sa di terra e di sudore. Cultura della terra, dunque, quella di Bergomi? Civiltà contadina? I suoi personaggi sembrano indossare paludamenti indiscreti, madidi di sudore, con richiami lontani, nei loro segni, di eventi storici. Quasi un realismo danzante quello di Bergomi, agile com’è il movimento delle sue figure; che imprimono spontaneità di linguaggio al tema, con un sincronismo poetico umano, commovente: la natura si sgretola in forme sgraziate, però senza retorica. Le scene sembrano eventi. Bergomi si immerge nel mondo che lo attrae con una pennellata ampia, sicura. Il colore non è un bel vestito per Bergomi. A volte ha il sapore della terra bruciata saziando le immagini con intonaci prestigiosi. Un pittore vagante-svagante? I suoi indios, le ragazze specialmente, hanno la purezza limpida di chi non sa fingere. Tutto è dentro in una ricerca umana di alta emozione poetica. E qui il realismo di Bergomi si contraddistingue nella misura in cui egli lo eleva a simbolo. Con una sincerità che non vuole concludere, ma che vuole portare avanti il discorso con maggiore respiro e con più accentuati significati dentro gli avallamenti vitali di chi pratica l’esistenza in un intreccio di dolori e di affaticate conquiste e di irrisori amori.


LE RAGAZZE DI BERGOMI

Volti cresciuti fra sterpaglie,
non piangono.
Figure prive di visioni innaturali,
la pura luce le ha privilegiate.
Senza riverenza femminea,
non trasaliscono.
Umani richiami,
sogno della vita vera.

Da Galleria d’Arte “Delfino”, Rovereto 21 maggio-6 giugno 1980. Pieghevole.


ESTER MARTINELLI

Quando la pittura raggiunge il massimo della sua ispirazione creativa riesce a comunicare impressioni ed emozioni vibranti e potenti tali da assurgere a vero e proprio messaggio umano, culturale, sociale fermando sulla tela un momento di vita antica o nuova che si snoda nell’iter della storia dell’umanità.
L’epopea della gente andina fornisce a Giacomo Bergomi, il pittore bresciano che espone in questi giorni presso la galleria “Delfino”, lo spunto per i suoi oli altamente espressivi soprattutto per l’elemento cromatico oltre che per la scelta di temi e la soggettività interpretativa di una realtà amata per il suo fascino raffinato, altero e selvaggio.
La sfarzosità dei colori segna un contrasto ricco di mistero con la scabrosità dei visi e del paesaggio, la luminosità di atmosfere solari è evidenziata dalla pelle scura della gente indios, l’opprimente stato di impotenza umana contrasta con il colore di una natura avara, ma preziosa, cornice di scene ora allegre come il mercato, ora estremamente tristi come i gruppi sparuti di vecchi, o la fatica che vibra nelle figure esse stesse parte vitale ed essenziale del paesaggio.
Giacomo Bergomi è sfuggito alla facile tentazione della descrizione retorica, è sfuggito ad una banale analisi di particolari trascurabili, ma è stato attirato dall’insieme della storia di quest’umanità tanto particolare, ed anche tanto interessante per un modo di vita diverso, per l’orgoglio di una razza, che traspare dagli sguardi alteri di chi “ha vissuto” molti anni prima e continua a vivere nel presente, una sua interiorità e superiorità, una sua legge, una sua forza, perché è l’intensità di mondi diversi che rende unici ed interessanti gli uomini e continua il ritmo vitale dinamico ed universale nello spazio e nel tempo.
In questa mostra siamo di fronte a qualcosa di insolito e potente, quasi una testimonianza, quasi un documento a livello etnografico, dove il sole, che picchia verticale tracciando brevi ombre sembra dire una sua parola definitiva nel contesto di secoli di civiltà, di culture che si succedono affannando l’umanità e sfasciandola, per dimostrare con una lezione immortale la sua presenza incontrastata nella vita e nella storia.

L’epopea delle genti andine nelle opere di Giacomo Bergomi, da “L’Adige”, 20 giugno 1981.


MARIO COSSALI

«È gente dura, montanara, taciturna; al mercato, sottovoce gli “affari”; non una voce alta, come non si volesse turbare il silenzio e la solitudine delle Ande. Dalla loro musica traspare una grande tristezza e malinconia, certamente esprime l’autenticità della loro esistenza, il dolore e la rassegnazione di un popolo in lotta per la sopravvivenza».
Queste sono parole di Giacomo Bergomi, che alla Galleria Delfino di Rovereto, in questi giorni, ci offre il suo sguardo appassionato dentro il cuore delle tribù andine dell’Ecuador (per l’esattezza delle tribù Salazacas e Chibuleos).
Gli uomini, i bambini, le donne di Bergomi hanno dei volti e dei portamenti nei quali sembra condensarsi la sofferenza di un intero popolo. Ma questo è ancora poco, perché, se ci specchiamo in essi con disponibile amore e con intelligenza partecipe, vediamo nei loro occhi anche la nostra sofferenza, ed una pena che appartiene a tutta l’umanità.
E’ perlomeno singolare che un artista dedichi la complessità del suo impegno e della sua ricerca alla conoscenza dell’identità di un popolo lontano, senza nessun compiacimento esotico, senza narcisismo intellettualistico, senza pietismo soprattutto, fosse anche riverniciato politicamente.
La pittura di Bergomi è il frutto di un incontro e punta ad esaltare le potenzialità e le ricchezze, dell’incontro, tanto più importante quanto più l’incontro è sia con una storia millenaria, sia con una “moderna” tragedia. Questo popolo degli indios ecuadoriani si trascina nella sopravvivenza e acquista nel segno e nel colore di Bergomi la dignità e il valore di chi conosce, seppure impotente, la propria secolare oppressione.
Questo popolo è chiaramente un atto di accusa vivente contro la civiltà dei bianchi colonizzatori, siano di ieri o di oggi. Questo popolo, grande e sofferente, piccolo e seducente, ci viene quasi fisicamente incontro dai quadri di Giacomo Bergomi.
È una pittura umana e tragica che ci spinge ad uscire dal già detto e dal già fatto della nostra vita quotidiana, che ci invita con il suo segno, tutt’altro che realistico, ma trasfigurante, all’incontro con le tribù andine dei Salazacas e Chibuleos.
Un impegno fuori del comune per un pittore e per una pittura, nel quale il colore e il tratto vanno a formare un quadro di emozioni che si inseguono continuamente in Bergomi ma anche in noi.

Gli Indios delle Ande in una mostra di pittura, da “Questotrentino”, giugno 1981.


LUCA GOLDONI

La prima cosa a cui ho pensato guardando queste tavole di Bergomi è stato il mio presepio di quand’ero ragazzo. Era cosi, arroccato, terroso, me lo ricordo come una macchia di ocra e di gialli; le casine di sughero, con le finestre dipinte come occhi, appoggiate su colline di carta da pacchi.
Nella mia incoerente Palestina i pastori dormivano all’ombra di abeti di paglia verde tra i sassi ruvidi che trovavo nel greto del torrente e le pastorelle, lungo la stradina di farina gialla, si avviavano alla capanna dove, quelle inginocchiate, erano già in adorazione di un Bambino Gesù più grande di loro, circondate da enormi pecorelle.
Ricordo il piacere di scartare a metà dicembre i cartocci di giornale dentro cui pastori e pecore passavano tutto l’anno; dalla carta spiegazzata affioravano insieme a loro notizie remote che portavano la data del 7 gennaio, il giorno in cui,
malinconicamente si sbaraccava tutto.
Quelle pastorelle portavano gli zoccoli e i grembiuli delle lavandaie di Bergomi e si affacciavano come loro a una fontana dove l’acqua era uno specchietto su cui io appoggiavo un’oca di terracotta perché nuotasse.
Le porte mi incantano in questi “presepi” di Bergomi: sono quasi tutte socchiuse; è come se l’immagine perdesse la sua definitezza di momento rubato alla realtà e fermato per sempre; quelle porte aperte sul buio lasciano una speranza, il suggerimento di un interno animato dalla presenza costante dell’uomo, dalla vita anche se appena accennata e segreta. O l’intuizione del mistero che sta al di là delle cose.
Un’altra cosa mi è sembrata molto bella nelle figure di Bergomi: la luce. Non è solo una macchia di colore più chiaro, non è placcata o accecante, è calda, vivida, concreta. È la luce di maggio nelle piazze e nelle corti movimentate da una piccola e indaffarata umanità, è il chiarore di ambra che risveglia un paesaggio di case e campanili disuguali, è la penombra raccolta di un portico, è il sole bianco e uniforme sui muri come lo si vede per contrasto quando è rotto da spicchi d’ombra.
È una luce interna ai volti e alle cose e non può essere che così perché i volti, i gesti, gli oggetti di Bergomi parlano continuamente di una realtà vissuta e amata: non vi entrano mai, nè il calligrafismo compiaciuto della riscoperta dei valori semplici della vita; nè la ruvidità trasformata in grottesco. Ma soltanto l’affetto e la malinconia di particolari visti e rivisti tutti i giorni senza per questo essere sbriciolati dalla consuetudine. Anzi, questi particolari sembrano balzare fuori dal ricordo improvvisamente, come se fosse la prima volta, carichi di simboli: la casa, il lavoro, il calore della vita.
Gli zoccoli lasciati sul gradino davanti a casa, il vaso di fiori sbiaditi sotto la finestra, il portone sbrecciato della stalla raccontano con lo stesso linguaggio un amore pacato e discreto.
Nei quadri di Bergomi sento, infine, accanto ai sapori di una campagna nostrana e familiare, certe asprezze dei paesaggi bruciati del Sud, certe atmosfere solari di una Grecia ancora mitica, i cieli favolosi del Sudamerica: ciò è perché la purezza del suo attaccamento alla terra supera i limiti di una dimensione definita di spazio e di tempo ed ogni sua esperienza è sostenuta da un unico spirito affettuoso e caldo.
Mi accorgo allora che non sbaglia l’ultima delle mie associazioni dì idee che mi riporta dai paesaggi di Bergomi al calore, alla secchezza, al silenzio, all’immobilità di un pomeriggio dell’ultima estate quando attraversavo le Murge Pugliesi verso Casteldelmonte, normanno e mediterraneo.

Da AA. VV., Bergomi, Edizioni del Moretto, Brescia 1983.


GIANNETTO VALZELLI

Due o tre cose fondamentali si possono dire di Giacomo Bergomi (che costituiscono i chiodi solari della sua arte) e sono: la fedeltà ai sentimenti, la religiosità che sorregge il suo mondo, la dignità che lo distingue. Sua prima maestra è la vita: quella sequela di cose che fanno le asperità quotidiane e il serrato succedersi delle stagioni che dallo sfibrante lavoro nei campi si riconducono al cerchio domestico delle barchesse e delle stalle, i quattro muri inzaccherati entro cui si esplica la corte dei poveri, la cascina. E dentro le cose, la dannazione delle cose (la grandinata che brucia il raccolto, la morìa del bestiame, la carestia) ma anche l’insorgenza di parole gesti azioni che fanno la dirittura morale (la compattezza della famiglia, la solidarietà dei vicini, la gioia dell’amicizia) e dunque la pazienza, la forza, il coraggio delle cose attraverso se stessi e in comunione con gli altri. In quel regesto di umiltà e sacrifici che è il suo itinerario alla pittura, il 1957 risulta una pietra miliare. Prima, per le sollecitazioni che trova (a cominciare dall’innata passione del disegno) in insegnanti validi come Salvadori e Franchi e nello stesso direttore dell’Accademia di Brera, Aldo Carpi. Quindi, per gli importantissimi e proficui incontri con Carlo Carrà e con Domenico Cantatore. Perché, se nell’uno ammira la colta e suggestiva lezione del linguaggio tonale, all’altro deve – col più solenne battesimo d’incoraggiamento – quel magistrale riscatto dalla opaca e grommosa materialità degli avvii che consiste nella riscoperta della realtà naturale secondo la squadrata e rivelatrice chiave giottesca, mediante un’operazione di sintesi formale e di attitudine plastica, l’ossatura arcaica, l’impianto geometrico e la compostezza compositiva e cromatica, per cui le figure si assestano solidamente e il paesaggio si aderge in una dimensione monumentale. L’amabile sprone di Carrà fa dimettere a Bergomi la ruvida scorza di esercizio e di affanno che lo intriga, per consentirgli la libertà di una pulsione che lo rigenera con fervore in un processo di spasimata identificazione dal quale uscirà mondato e vibrante di tutta la linfa e i germogli della sua terra profondamente rivangata nelle tematiche dei braccianti e delle cascine. Al suo apparire in Francia, la critica lo elogia come innovatore nel campo dell’arte sacra, ma a meritargli il titolo di “peintre de la douleur et de l’austérité” e a confermare in lui certa pienezza di affiato soccorre – in esplicite scansioni – la facoltà di cercare sotto le apparenze corporee le virtù morali e la cultura in cui si incarna l’uomo, di chiarire i misteriosi rapporti che corrono fra gli esseri e le cose.
C’è un “luogo deputato” alla pittura degli esordi di Bergomi. È una chiesetta sconsacrata tra i campi di Lograto, che egli si adatta a studio, dove rintanarsi preso da una sorta di frenesia e farvi convergere (lo stesso che il sanguigno, il dirompente, l’iconoclasta Romanino allorché trascina fino ai muri delle chiese bresciane – per affrescarvi la sua Bibbia dei poveri – frotte di boscaioli o di pescatori) il mormorio, l’alito, il calore della sua gente. Le bocche tagliate a colpi di coltello, gli occhi che saettano timori e sconfidenze, i corpi sformati da venature espressionistiche rimarcano vicissitudini martoriate d’infelicità e di stenti. Bergomi non può cedere al grottesco, nè permettersi la caricatura. Avrebbe senso di derisione, suonerebbe bestemmia contro il suo sangue. Egli arriva a collocare al centro del suo rapito fervore d’arte – a mo’ di preclare “nature morte” – gli stessi arcaici strumenti della liturgia agreste. Intanto, dai quattro cantoni della sua terra incalza alla fertilità dei racconti la lunga, la gremita teoria di umanità integra e antiretorica dei suoi assunti ciclici.
La donna in Bergomi (si fa per dire) è cerbiatta e mula e leona, tenerezza sottomissione gagliardia, paradigma e àncora dei valori della famiglia e della casa. È la donna con l’anfora o il fagotto delle provviste, che d’un passo lieve e invitto attraversa gli anni e le peripezie e dentro siffatta sua alterezza s’innalza – ferita o serena – con picassiana grandiosità. E la donna di segaligna e strenua tempra, che s’incurva nella spezzatura stroncante delle Raccoglitrici di olive a brancicare quella manciata di miseria in cui si enuclea il dramma del Sud. E la donna madida e sghemba del male delle sue giunture, che irrompe nel novero di aspre e belle stringatezze delle Lavandaie. E la donna percorsa e compenetrala dall’edera di esili braccia, lancinata dai lamenti e dai deliqui delle sue creature. E la donna che Bergomi ha veduto – sette spade di strazio nel suo cuore di Madonna – seguire entro la fossa il figlioletto morto di tetano.
I suoi ragazzi divariano dai soavi e arrendevoli famigli che il genio accattivante del Ceruti induce all’ombra delle cascine in divagazioni trasognate rispetto al brulichìo inquietante degli strapennati e stralunati pitocchi. Sono ragazzi che avvampano di spontaneità. In Gruppo di paese Bergomi li assiepa come per la festa della foto-ricordo di scuola, dall’incanto più bambino alla grìnta più smargiassa amalgamati nel fermento d’acume e di pastosità di un grande studio caratteriale. In Ladri di meloni li sorprende – con palese condiscendenza – totalmente assorbiti dalla golosità e dall’ingordigia, circonfusi del vanto della loro impresa, proiettati in uno spazio e in una dimensione di assoluta letizia. E in Bracconieri narra la loro iniziazione alla scaltrezza, tra un malandrino bisbigliarsi segreti e l’impegolarsi in complicità e silenzi, mentre in fondo agli occhi la limpidezza s’incrina a un vischio d’afa e di balordaggini, di sogghigni e di ceffi grondanti un magma di straordinaria emulsione.
Un ciclo in cui l’artista matura la sua risolutezza è dedicato alla inesplorata e conturbante tragedia della vecchiaia. Si tratta dei Ricoveri, quei teleri che – per l’inusitata misura e per l’arduo impegno – hanno sconvolto torpori stanato velleità di provincia, suscitando più di una polemica. Ed è vero che il capolavoro può restringersi nei limiti di un fazzoletto, ma quanti sono oggi che hanno fiato e coraggio per affrontare e rischiare la vastità di un lenzuolo? A Bergomi si è rimproverata per un verso la monotonia ripetitiva del tema e per l’altro la sua dilatazione in senso melodrammatico. Ma sono riprensioni da controbattere osservando: 1) che in pittura non si ciancia nè si teorizza ma ci si profonde e si sgobba, e che rivedere ruminare riprendere i soggetti congeniali rientra nell’esercizio di chi si attiene alla maestrìa dell’arte; 2) che il crescere e l’ingigantirsi dell’opera in Bergomi rispondono a un impulso morale perché ambiscono a suturare le lacerazioni della vita nella misericordia della pittura e la pittura si manifesta compassionevolmente consustanziata delle costernazioni della vita.
Nella sconcertante verità dei Ricoveri, se le donne conservano una loro lene sostenutezza, gli uomini si arrendono a uno struggimento che rintrona del rantolo della fine. Sul loro tracollo incombe la memoria del vecchietto caro all’artista, che nella guerra di Russia ha perduto due figli e straniato, espunto dalla cascina, vi riporta – a cercarli – il suo passo farnetico e brandelli di parole.
Anche il paesaggio, in Bergomi, ha un suo decoro di singolare concretezza. Non poggia sul vago, sulla dilettazione. Non sta in Arcadia, nella fantasia. Si abbarbica al suolo di Lombardia e ne risucchia la venustà esibendo una sorta di delega: è il paesaggio che supplisce l’uomo, lo interpreta e lo integra, in esso si identifica.
È Il paesaggio delle cascine che vediamo scorrere ai lati dell’autostrada della Serenissima – sempre più distanziate, sempre più fantomatiche – da una stagione all’altra defraudate del respiro dei poderi, disgiunte per sempre dai loro sostentamenti, recise dal senso religioso della natura, rimosse o sovvertite dal sisma di meccaniche blandizie delle speculazioni immobiliari. E Bergomi le sospinge, dal grumo delle loro rifrazioni, in mezzo al silenzio della pianura padana – al centro delle sue tele – a costituire la chiara epifania o sublimazione della casa nel contesto delle sorti contadine, il più bel monumento di ossequio a una cultura rinnegata dalle albagìe del progresso. Attorno ad esso – coagulo di grame felicità e di frequentissime disgrazie – il sole va ripetendo il suo giro di corteggiamento, ma dove sarà mai finita la sua gente? Famiglia e società hanno preso inesplicabilmente altre strade, e nelle orbate fessure della cascina fatiscente non batte più l’ala della rondine, accestisce un’altra desolazione, tuttavia essa è là che si accampa nel vibratile ardore d’una visione – materia e simbolo – porta spalancata al figliuol prodigo per ridonargli il senno e il sonno, simulacro di chi dentro la terra è nato e dentro la terra è morto perpetuandone la fecondità.
Questa è dunque pittura che concerne i sentimenti avvalendosi delle cose e rendendone testimonianza, pittura che non strepita e non impreca, eppure – nell’esaltare le infinite capacità dell’uomo di sostenere le avversità, gli stenti, le ingiustizie – assume in sè il carisma e la sostanza della storia. Pittura che ha le sue lunazioni, le sue mistioni, le sue combustioni: spreme 1uminescenza dalla opacità delle ocre e implica il segreto del macerar colori alla Foppa, ma per bramosia di luce cerca l’effluvio cristallino o per converso la corposità che inebria.
Così è in Grecia, dove l’artista insegue carovane di nomadi e trasfigura selvatichezza e innocenza, ostentazioni remissive e lampi di sfida in una ferma ieraticità da coro antico, e investe di un fulgore crepitante la bianchezza delle chiese ortodosse fin quasi a ossificarle nelle loro strutture. Invece, nel lontano Ecuador, un vento terso di altitudini e di salsedine imbeve il suo asciutto registro lombardo di qualche cromia sgargiante, quasi folate d’indaco di viola e di porpora, balenii di raso alla Savoldo per dare agli stracci di una immota realtà da presepe la sontuosa effusione del giubilo.
Succede che, quando l’industria e l’urbanesimo spopolano le cascine, depauperandole delle braccia che le onorano col lavoro, Bergomi sente stravolgere in sè le ragioni della sua pittura. E come se diseredassero anche lui, gli cavassero il sangue, gli strappassero l’anima. E allora reagisce come può reagire la mitezza in persona. Va a ritrovare se stesso di là dell’oceano, fra gli amerindi e i meticci delle tribù andine, l’altra faccia dell’orbe terracqueo. I ragazzi, le donne, i vecchi che aveva
familiarmente assembrato nell’aria di affranto delirio e di coriacea rassegnazione della sua Padania, cambiano pelle e braghe, assumono le sembianze camuse e il poncho di un popolo di formiche che alla terra chiede il nulla e il tutto per sopravvivere. Vengono innanzi, in scorcio mantegnesco – in un nuovo ciclo d’intrepida veemenza – le enormi callosità di chi batte spazi immensi per scendere al mercato a barattare un fagotto d’orzo, qualche animale, uova, un cesto di papaia. Sporge in primo piano l’adunco gonfiore di mani che devono sgranare mais, dissotterrare patate, inchiodare quattro assi di legno tenero sulla creatura troppo presto rapita dal morbo.
Apparentemente relegata in una lontananza siderale, questa che Bergomi amplifica – tornando ai teleri provocatorii – è ancora la sommessa, la spiantata, la dolente epica del mondo contadino ripudiato dagli altri in patria ma da lui riconquistato intatto nel cuore di un altro continente, in quel mirifico linguaggio dell’arte che si fa dono universale.

Il mondo contadino di Giacomo Bergomi, da AA. VV., Bergomi, Edizioni del Moretto, Brescia 1983.


DANILO TAMAGNINI

Instancabile Bergomi nel recuperare alla memoria collettiva scene rurali: uomini, panorami, cose.
[…] Evocano, gli interni macchiati d’umidità, una civiltà di rude confidenza con la fatica cui un pittore della bassa, Giacomo Bergomi, che da sempre dedica i suoi colori a esaltare un mondo (e la commozione cede il passo a una protesta vibrata per la condizione di sudditanza alla miseria tuttora presente, purtroppo, in qualche area anche italiana) che sempre è stato chiamato a dare senza nulla ricevere.
A quelle tavole abbiamo lasciato spazio perché sia l’artista di Barco, frazione di Orzinuovi, a narrare il travaglio di generazioni che sui campi si sono macerate. E che oggi da noi vedono farsi rari gli epigoni mentre altrove ancora consumano una quotidianità di sacrificio. Come in Grecia e nell’America Latina, dove Bergomi è andato a ritrarle.
Occorrerebbe, qui, la prosa “padana” di Gianni Brera – un vocabolario attraverso il quale si risale a Gadda, una vampa di sentimenti interpretati con fedeltà estrema, una vivacità di immagini che puntualmente riflette il paesaggio nella mutevolezza che le stagioni gli impongono – che la macchina per scrivere utilizza con lo stesso entusiasmo che il “pais” Giacomo riserva ai propri pennelli. E al suo intuito di ricercatore, perché nella villetta di Collebeato – toponimo di fiabesca evanescenza -, dove dimora, ha raccolto migliaia di oggetti legati alla realtà della cascina di una volta: l’aratro ligneo, gli zoccoletti dei bambini, le trappole per gli uccelli destinati a insaporire la polenta.
Non è che Bergomi alla frequentazione di solai e cantine dove recupera frammenti di storia senza fastigi, sia approdato vocazionalmente. Vi è pervenuto come conseguenza di quel suo instancabile mettersi in giro per recuperare alla memoria collettiva scene rurali: uomini, panorami, cose. Molti dei quali tramontati per sempre in quel rapido (eppur lunghissimo rilevandolo con il calendario sconfessato dal “boom”) volgere di tempo cui s’è fatto cenno.
Dall’indagine evocativa – il cui messaggio è in centinaia di opere collocate a ornamento di tante abitazioni – è poi risalito alla ricerca del tesoro di alacrità che per quegli uomini e per lo spazio nel quale si sono consumati è rappresentato da strumenti di uso ormai abbandonato e che persino contemplano, per gli scolaretti, borse per il trasporto dei libri sagomate con assi e, per chi era tanto povero da non possederne una ferrea, catene per il focolare intagliate in tronco durissimo.
Come pittore e come collezionista ‘I Giacom si mantiene fedele alle sue origini: stanze immense che d’estate bruciavano e d’inverno non si potevano scampare dal gelo, stoviglie che non si compravano ma erano scavate con atavica pazienza, sacrifici inenarrabili perché a mezzogiorno la tavola fumasse di qualcosa.
Alcune vestigia sopravvivono, altre – le più numerose – sono state cancellate. Bergomi – protagonisti e scene sulle quali si muovevano – aiuta a ripossederle.
Il cielo, la terra, il miracolo delle stagioni non mutano. Cambiano le sovrastrutture del paesaggio perché lo vogliono le generazioni che si succedono. Ma l’anima resta quella, Bergomi docente. E come sanno gli uomini della bassa che lo slancio per intraprendere strade nuove traggono dal patrimonio proprio del loro ceppo. Il futuro, come giorno dopo giorno si impara, ha un cuore antico. Ignorarlo significa affrontare il domani senza aver riposto nella bisaccia un viatico di speranza.

Da AA.VV., Bergomi, Polenta e pidocchi, Orzinuovi, Scuola Elementare, 29 agosto-5 settembre 1984. Catalogo.


SERGIO GIANANI

Il pittore Giacomo Bergomi? Un fratello per me. Ci siamo conosciuti quasi imberbi, abbiamo vissuto negli stessi luoghi per decenni, ci siamo frequentati sempre. Com’è, dunque, che non ne ho scritto mai mentre tanti altri l’hanno fatto? Proprio per questo, perché degli amici viscerali non si può scrivere, ci si limita a comunicare anche tacendo, a intendersi, a volersi bene con semplicità e naturalezza. Se ora mi metto a scrivere di luì posso assumere il cipiglio – e la supponenza – del critico o di quello che cerca il pelo nell’uovo? No. Poiché con Giacomo me lo son sempre permesso, potrei dire: questo quadro è buono, quello non mi va. Ma son cose che ho detto e dirò in avvenire a lui solo, seduto in quella tal poltronaccia del suo studio, a fianco della finestra che dà su via Trieste. Non verrei a cantarle in pubblico anche perché oggi non è tanto il buon quadro che interessa ma la firma; è insomma una questione di mercato e io col mercato non ci ho mai avuto nulla a che fare.
Parlerò dunque dell’amico e magari sarò indiscreto perchè Giacomo può aver cose che vorrebbe non fossero dette e io invece le dirò perché sono uno scrittore e ognuno ha gli strumenti suoi. Ma saranno rivelazioni innocenti e simpatiche, soprattutto umane, che non gli nuoceranno e anzi lo faranno amare di più.
Gli inizi, per cominciare. Bergomi nasce a Barco di Orzi, suo padre è mandriano, i fratelli e le sorelle sono contadini. Un fratello, Vittorio, è in seminario. Giacomo da ragazzo fa il famiglio, el famèi, è cioè avviato allo stesso mestiere del padre. Quando la famiglia si sposta a Lograto – a San Martino, l’11 novembre, per salariati e braccianti scadevano i contratti e si traslocava – Giacomo è ancora famiglio, ma uno strano famiglio, che ritrae le vacche negli scorci di tempo, e questo è ritenuta una stravaganza. In paese chi esce solo di poco dalla norma si becca la qualifica di «mato» e Giacomo non sfugge all’onorevole titolo. Ha un’altra passione in questi anni: la bicicletta. E nel dilemma «pennello – pedale» vince infine il pennello e il sogno di emulare Bartali è sbaragliato da quello di emulare Giotto e soci.
In quel torno di tempo a insegnar pittura alle giovani leve c’era qua a Brescia un maestro di chiara fama anche se oggi quasi del tutto dimenticato: Emilio Pasini, ottimo colorista, ritrattista efficace e disegnatore elegante che aveva studio in via Santa Chiara. Vi affluivano come allievi giovani promettenti che poi si son fatti un posto apprezzabile nella storia artistica bresciana degli ultimi quarant’anni. Bergomi vi arriva subito dopo la guerra. Ha per compagni Decca, Saleri, chi altro? Per qualche giorno ci fui anch’io, che volevo curiosare – inguaribile vizio – nel mondo dei colori. Pesini mi pigliò a suo confidente: quel Bergomi? Buon colorista, ma disegna da cani. Il maestro aveva un disegno diligente e minuzioso, Bergomi tirava giù sciabolate e deformava. Ma scoprii presto che la vera regione del dissidio era che Bergomi gli corteggiava le modelle di cui il vecchissimo Pasini regolarmente si innamorava.
Poi Giacomo, che di pittura doveva campare, andò a Milano dove qualcosa si poteva vendere – allora Brescia non era quel buon mercato che divenne una quindicina d’anni dopo. Io, nel frattempo, ero sceso da Lumezzane dove insegnavo come supplente in una scuola elementare ed ero tornato alle mie Basse. Avevo preso in subaffitto due gelide stanze nel castello di Maclodio, a un tiro di schioppo da Lograto dove Bergomi tornava spesso a trovare la famiglia. In questo castello c’era un vasto salone forse testimone dei noti fatti storici che costarono la testa al Carmagnola. Come studio per un pittore l’ambiente era l’ideale, ma non si poteva occuparlo stabilmente perché dichiarato d’interesse storico, o così credo. Comunque, chiesto il permesso all’affittuario del castello Bergomi piazzò tredici cavalletti in fila con altrettante tele della stessa dimensione e in un giorno passando da una tela all’altra coni vari pennelli intrisi ognuno di un colore portò a termine tredici marine di dignitosissima qualità commerciale. Le vendette poi a Milano per poche migliaia di lire. Questi introiti, di provenienza un po’ umiliante, gli consentivano di vivere e di completare la sua preparazione artistica. In quel tempo fece il ritratto di mia moglie; ci si sente l’allievo del Pasini, è elegante senza essere personale. Glie lo pagai mille lire, di più non potevo. Poi, quando si liberò dal bisogno e potè dipingere ciò che voleva e come voleva, cosa accadde? Che tornò alle sue origini contadine, scopri che il mondo della sua fantasia era lì attorno a lui. In quel medesimo tempo io scoprivo il Ruzante e mi innamoravo dei primitivi siculi e toscani e umbri. Frequentava allora la mia casa – mi ero trasferito di nuovo e proprio a Lograto – un allampanato giovanetto maniaco del teatro, contadino anche lui, e gli attaccai la mia stessa passione, gli feci studiare il Lamento di Jacopone e il Cantico delle Creature e lo misi letteralmente su un treno che lo portava a un concorso di recitazione presieduto dalla Torrieri. Oggi quello spaesato contadinello è l’attore di professione Antonio Piovanelli che ha lavorato con Visconti, con i fratelli Taviani, eccetera.
Vivevamo allora, senza rendercene ben conto, l’ultima stagione della civiltà contadina e nei quadri di Bergomi, come nella vicenda umana e spirituale di Piovanelli, c’era il presagio del tramonto. Quei critici che, currenti calamo, ficcavano Bergomi tra i realisti si sbagliavano di grosso e si capiva che non avevano mai messo il naso in una cascina: Giacomo dipingeva la sua inquietudine che di là a non molti anni sarebbe diventata nostalgia di un mondo scomparso. Pittore della memoria, altro che della realtà!
Il tramonto di un mondo può avere toni e splendori di una opulenza autunnale. In una di quelle sere bollenti della nostra estate contadina a un arguto farmacista nostro comune amico, arca d’ogni ameno tiro, vivente repertorio d’ogni barzelletta, venne in mente di giocare una burla a un certo anziano mandrillone che era a bere le acque a Casino Boario e che viveva nell’eterna ricerca di femmine compiacenti. Fu dunque raggiunto telefonicamente e avvertito che in serata un suo amico, mossosi a compassione delle sue pene astinenziali, gli avrebbe recato dal Carmine una bellissima etéra, s’apparecchiasse ben lavato, profumato e con biancheria di bucato, ne valeva la pena. L’accordo era che si sarebbero incontrati in un certo posto, l’amico l’avrebbe caricato con la pulzella in macchina e, sorpassato un ponte antico, piegato in un certo praticello, l’amico li avrebbe lasciati ai comodi loro. Preparasse un plaid, sarebbe stato una finezza necessaria.
Lascio immaginare se quello non fece tutto a puntino. Io, Toni e Giacomo in cosa ci entravamo? Ci arrivo: Giacomo venne a casa mia con una orripilante nerissima e voluminosa parrucca. A far da etera sarebbe stato lui. Mia moglie gli dette un suo vestito, gli gonfiò il petto con degli stracci, lo truccò. Ora se Bergomi è passabile come uomo, vi dò per certo che come donna e con quella scarmigliata, indomabile parrucca, era una cosa da far spavento, la Medusa a dir poco. Io e Piovanelli avevamo un altro ruolo e ci mettemmo in abito scuro con cravatta. Si parte dal paese con due macchine, il procacciatore e la procacciata sulla prima, io e Toni sulla seconda. Al luogo stabilito, puntuale e inappuntabile, il mandrillone è ad attendere la sua bella e scivola prontamente in macchina, noi stiamo in distanza a osservare. Ci si avvia verso l’antico ponte. Nella macchina davanti a noi l’amico è al volante, i due, diciamo così, spasimanti sono sul sedile posteriore. Il mandrillo, eccitatello, azzarda una tenera carezza sulla guancia irsuta della orrenda creatura e la trova… delicatissima. Ma via via si fa pia intraprendente e Giacomo ha il suo bello e il suo buono a fargli tener le mani a posto. Arrivano al di là del ponte, accostano. Il nostro maturo amadore, nitrendo come un puledrino, balza fuori e stende la coperta sull’erba… A questo punto, secondo l’intesa, io e Toni dovevamo farci avanti a dire: «Alto là qua si commettono atti osceni in luogo pubblico. Documenta». Invece, per lasciar Giacomo alle sue difficoltà, indugiamo. Griderelli, rumori di divincolamenti, la voce di Giacomo che passa dalla finzione del falsetto al richiamo allarmato in timbro naturale.
Alla fine lo salviamo in extremis uscendo fiorì e arrestandolo per “flagrante camporella” e lasciamo in asso il surriscaldato spasimante che si liquefa in spiegazioni e in difese: – Faem negot de mal. Chèsta lè me cüsina.
– E la coperta sull’erba? – è la nostra domanda.
– Per la rosada, capéssel, se nò sa bagnaem el cül.
Begli anni! Poi, noi che amavamo quel mondo ci siamo trovati un po’ come pesci fuor d’acqua. Ma siamo tempre forti. Bergomi va a cercare i suoi contadini dove sa di trovarli, in Sudamerica; io… beh, io faccio pur qualcosa, a modo mio.

Da Bergomi il pittore della memoria, in “il Giornale della Bassa”, marzo 1987.


MASSIMO GRIFFO

Giacomo Bergomi: e uno per volta escono silenziosi dalla memoria, come dalla porta socchiusa di un cascinale, contadini padani, lavandaie, suonatori e viandanti andini; chi tiene sulla spalla un forcone, chi regge per il manubrio una bicicletta, chi porta sulla schiena un fagotto, una fascina, un bambino che sporge il suo faccino di mela da una coperta a righe gialle e violette. Tutti con il loro peso, la loro fatica, il sorriso incredulo e amaro di essere vivi. Si dispongono sull’aia, sul bordo di un lavatoio, in uno spiano fra i monti dove l’aria più rarefatta raccoglie odori di fumo, di cuoio rancido, latte cagliato, e senza saperlo, solo per essere lì, trasformati in immagine, diventano umanità, e quindi coscienza, significato, magari protesta.
Tutto vero, e per conseguenza Bergomi pittore della ruralità, la schiettezza dei semplici, esseri emarginati dal benessere, dalla vita come piacere o da quella gratuità dell’esistere che sembra diventato il connotato quasi immorale di società svincolate dalla pena del quotidiano. Bergomi pittore sociale, di un realismo immaginoso quanto si vuole ma sempre saldamente attaccato a una terra che trova i propri recinti in un altrove della pittura.
E se invece tutto questo fosse semplicemente un “prima” dell’arte, l’occasione, la sosta dell’occhio, un’introiezione di archetipi (in parte, non lo nego, divenuti congeniali al suo spirito), ma senza scomodare il sociale, senza che ne nasca una questione di contenuti, lasciando a Bergomi la libertà di attaccarsi da solo le etichette che può prediligere volta per volta, anche mutando tipo di sensibilità, magari mettendosi a dipingere serate alla Scala, interni di jet privati, banchetti sui bordi delle più esclusive piscine? Allora dovremmo andare a cercare il suo universale in qualcosa che non sia unicamente l’oggetto, scopriremmo che nel ritratto, nella fatica, nella miseria più dolcemente partecipata c’è sempre un’affettuosa ironia, c’è la sapienza di un distacco interiore (anche quando richiama momenti dì sofferenza conosciuta, provata) che la trasforma in poesia. Bergomi descrive, non provoca, non suggerisce rivoluzioni. Cerca la verità del mondo e la narra come le vede, con la simpatia della partecipazione ma anche con il sorriso segreto di chi sente che il dramma è spesso un atteggiamento mentale nato al di fuori della realtà.
E forse scopriremmo che nel grande libro del mondo Bergomi ha scelto quelle letture perché li si sono diretti i suoi primi sguardi, li ha imparato l’alfabeto dei segni, i connotati dei volti, delle cose, lì ha costruito il suo più spontaneo linguaggio, passando dalla grammatica alla sintassi e divenendone poi tanto sapiente da poterle applicare, senza un attimo di esitazione, a volti, costumi, paesaggi, necessità di luoghi da cui lo separava non l’aia, non l’ombra di un campanile, ma addirittura l’oceano e montagne che tolgono il fiato.
Dunque l’universale di Bergomi forse non va cercato nell’amarezza di quel volto, nel dolore di quel sorriso, nella pazienza di quel gesto, ma nel gesto, nel sorriso, nel volto che sanno esprimere pazienza, dolore, amarezza (così come spensieratezza, soddisfazione, allegria), di tutta l’umanità, rinunciando a ogni applicazione populista o classista ma usando un linguaggio che ha trovato nei volti dei contadini e delle lavandaie la maggiore schiettezza, la sua più immediata comunicazione. Credo che se riusciamo a vederlo così (l’arte del vedere non è meno ardua di quella del mostrare), scomponendo i suoi colori, la singolare spontaneità di tratto dei suoi pastelli, dei suoi inchiostri, dei suoi carboncini, ci accorgeremo che la pittura, i disegni di Bergomi vanno molto al di là dei suoi contenuti, sono incursioni visive, tra un battito di palpebre e un altro, nell’eterno dell’uomo e del suo habitat elementare, colto nel lampo che ne illumina le fondamentali essenzialità.

Da Centro Convegni Galleria “Meravigli”, Bergomi, Il cantore della vita contadina, Milano, Centro Meravigli, 17-30 dicembre 1988. Catalogo.


TONINO ZANA

Il padano conquista il valtrunplino. Bergomi, da poco più di una settimana a Villa Glisenti, con cinquanta opere del ciclo “Lombardo-Andino” e “Marchigiano-Ostuniano”, affascina con la sua pittura sostanziosa, per niente affettata, tesa alla materia prima, poco incline alla trasformazione in orpelli e ghirigori. E in questa concretezza, lui padano della Bassa orceana, incontra il codice genetico della gente dell’alto Mella, il senso della fatica, l’estetica di un lavoro giusto, l’etica di un cielo equo con l’equità degli uomini.
Centinaia di valtrumplini, così, si sono specchiati in quei quadri, ne hanno parlato ai vicini e agli amici ed oggi la mostra conta, grazie a questo tam tam di consensi, qualche migliaio di visitatori. Non si stacca il biglietto a Villa Glisenti per cui la conta diventa difficile. Ma se sommi un afflusso ininterrotto di una domenica e un buon arrivo ogni giorno, da ogni parte della valle, con folte presenze cittadine e degli aficionados della pianura, puoi dire, con sicura tranquillità, che Bergomi ha fatto, ancora una volta, centro. Centro come alla mostra di Lograto a quella di Orzinuovi e di Mantova. Centro, come fa quest’uomo misterioso ogni volta che esce dal suo studio ed ha la luna giusta per esporsi al colloquio con la sua pittura.
Bergomi piace al sofisticato e al semplice, possiede il nocciolo di ogni cromatismo, il “dunque” del giallo e dell’azzurro per ogni vena culturale, interpretabile da ogni visuale sociale.
Ammirati, perciò, gli andini, contadini e paesaggi, la lombardità dei portali delle tegole e dei fieni e la regolabile luminosità manzoniana di nostro cielo.
Ma, a Villa Glisenti, Giacomo Bergomi, in quella stanza che dà sul monte, propone qualcosa di nuovo, uno sfondamento al sud, un dialogo fitto con la classicità della cultura mediterranea. Il ciclo di Ostuni incanta di cieli al cobalto e muri illimpiditi da un bianco sovrumano. L’uomo non compare perchè in giro si sente troppa religiosità. Si teme, quasi, un’apparizione, qualcosa che esca dal regno dei morti, risalga dal fondo del mare o si confonda con il pulviscolo delle sere riacquetate dagli scirocchi.
Bergomi venne a Ostuni, per la prima volta, a comporre il sudario del fratello, morto improvvisamente laggiù. E cercò unguenti alle ferite di una morte precoce, fra le rare sfumature di quel bianco-azzurro quasi prepotente. Gli pareva che l’accidente fosse arrivato da lì, che Giove fosse in combutta ancora con gli dei delle contese e gli avesse tirato un tiro malvagio. Un tiro scelto a caso, alla roulette degli inferni e fosse saltato fuori la combinazione del trisillabo Ber-go-mi.
Ma l’arte, si sa, è cara e temuta dagli dei. E il pittore bresciano si mette a pregare con i suoi colori per lenire il dolore e capire il luogo dell’agguato. Ne esce una nuova proposta culturale, di forte espressività, che rallenta il passo del visitatore,
Il maestro Bergomi è nei dintorni e, richiesto, spiega il “dove” e il “perchè” dice del fratello e della estrema suggestione di quella terra, ma sull’impasto riuscitissimo dei due colori egei, il bianco e il blu, non aggiunge nulla e si meraviglia della meraviglia degli altri. «E’ la mia pittura, da sempre. Sono contento che vi piaccia». Sostiene Bergomi in questa mostra, che è possibile vedere fino a Domenica tutta compresa, che Ostuni non è altro che una variante del suo percorso pittorico, ben voluta da lui come le altre. Figli di primo letto, perciò, i muri di Ostuni come le porte dei cascinali lombardi, le colline magre marchigiane quanto le angurie superbe di rosso nei mercati avari dell’Ecuador. Bergomi non fa differenze, tra i suoi quadri, e quasi invita ad amarli con eguale pazienza.
Perchè una terra non è benedetta e un’altra maledetta, un uomo non è vinto e l’altro vincitore. E il cielo insiste, amorevolmente, su ogni cosa. Alla pari.

Da La sorpresa di Ostuni, “Giornale di Brescia”, 13 settembre 1994.


WILDA NERVI

Contadini e campesinos sono stati i soggetti preferiti di Giacomo Bergomi, che nelle terre andine ha saputo trarre le intensità della civiltà rurale. E Bergomi ripercorre ora un nuovo viaggio che lo riporta ai confini di un universale, appena persa civiltà contadina, dalle cascine della pianura ai mercati e alle capanne peruviane. La nuova stagione dl Bergomi trae ispirazione dall’acqua primordiale, dai fossi dell’infanzia, dal fiume della sua terra, dalle donne e dagli uomini di ogni età, puliti e purificati nel liquido allegorico della nascita. Ecco la novità di Bergomi, le cascate maestose di una terra lontana, riassuntive di una somma lunga di energie vitali ed estetiche.
La raccolta delle sue opere, dipinti a olio e disegni, che dalle cime andine seguono lo scivolare a valle delle cascate bianche, si fa mostra e invita alla visita della raccolta inedita. Sarà inaugurata oggi, alle 16, alla “Città antiquaria” di via Vallecamonica 19, a Brescia, la personale di Giacomo Bergomi, che rimarrà nel Centro internazionale di arte e antiquariato, sino al 28 marzo. Dentro agli spazi espositivi di questa galleria, europea nella concezione, trovano luogo e ambiente consoni, le mostre di pittura e scultura che si susseguono a ritmo stimolante. Quella di Bergomi rappresenta un’anticipazione straordinaria dell’evoluzione dell’artista che, ancora una volta, lancia il suo messaggio, obbediente e fedele al contesto della sua esistenza. La forza della lavandaia si propaga, allora, sino alle tonalità dell’acqua primitiva, si diceva, chiudendo il cerchio virtuale di un’anima sensibile che ritrova quiete, quasi fosse nel grembo materno, nell’esplosione sospesa di quest’acqua.
Le “Cascate”, chiare e rumorose dei panorami andini, si confondono col poncho dipinto in tanti e tanti quadri dell’autore bresciano, che nell’America Latina ha viaggiato in lungo e in largo, e ha soggiornato durante lunghi periodi di ricerca.
Sono atmosfere che vivono in simbiosi con le cascine della Bassa, fissate nella memoria e nel cuore di chi ha ammirato il lavoro dl Giacomo Bergomi. Le “Cascate” diventano così, goccia dopo goccia, il fiume che ha scandito le sue emozioni artistiche e che, ora raffigura un rinnovato itinerario umano e pittorico.

Da Le cascate di Bergomi, in “Giornale di Brescia”, 30 gennaio 1999.


TONINO ZANA

Un’ispirazione che sembra congiungere i fontanili delle Basse ai corsi d’acqua del Venezuela.
All’inaugurazione della mostra “Tepuy e cascate” di Giacomo Bergomi, nelle sale di Villa Morando a Lograto, lo sguardo gira parimenti sui vapori e le vertigini di quelle acque, rappresentate su tele alte e larghe due metri per due metri e sugli affreschi puliti e rifiniti e sui quadri sopra i portali, rimessi con cura al loro posto, dopo esser stati custoditi prudentemente nel caveau delle banche bresciane.
Le cascate e i tepuy da cui esse ribolliscono prima di scendere a rompere il silenzio della foresta dopo mille metri di volo, sono state raccolte dallo stupore di centinaia e centinaia di visitatori. Lo stupore di Bergomi è condiviso ed è già in se stesso una utile donazione in tempi in cui non ci si meraviglia più di nulla.
Quello stupore che Mino Martinazzoli, alla inaugurazione della mostra, aveva tradotto magnificamente riportando la riflessione di Dostoevskij: «La bellezza salverà il mondo». Cercando, forse, di svelare una delle scarse chiavi di lettura di una speranza attiva, di una salvezza possibile attraverso gli strumenti della vita. La lingua dell’arte serve, e come, nell’epoca della scarsa comunicazione umana e della massima comunicazione tecnica. Ma non si capisce come possa essere comunicazione ciò che non serve a comunicare emozioni, umore e intelligenza.
All’acqua virtuale, anzi minerale, Bergomi riscopre l’acqua dell’origine, bianca potente e purificatrice. Di marca venezuelana, figlia di quei tepuy, si diceva, con la cima resecata, come una sega trancia un tronco, senza capo, insomma, manifestando coma l’acqua si crei da tutto il corpo e non solo dal cervello, essendo figlia del divenire – ricordava ancora Martinazzoli – e cioè dal mulinare di ogni membra, di ogni terra e di ogni saliva nello stesso istante ad ogni latitudine. L’acqua come spirito, peperò imbrigliata in una forma, è forse questa la strategia della mostra di Bergomi a Villa Morando a Lograto, la capacità di illustrare un elemento primitivo, desiderato in qualità della sua in contaminazione e rappresentato, ancora, nella sua primordialità.
Della mostra di Giacomo Bergomi, incantevole poiché ha incantato tutti coloro che erano lì e si sono espressi così, abbiamo registrato questo: Bergomi è un talento naturale, mano eccellente, carattere bizzarro; proporre acqua in tale quantità, vale dire bianco su bianco è frutto di una maestria guadagnata in anni e anni di fatica; ma la mostra di Lograto non mostra soltanto cascate: vi è in quell’acqua la somma di elementi che costituiscono un ambiente completo, un quadro non soltanto fluido; c’è sempre, per esempio, un cielo ora azzurro ora blu insidioso, di un’intensità inversamente proporzionale al cielo. Così succede che esso diventi scuro man mano si alza il livello della cascata e chiaro se si allontana, come se il cielo temesse, come lo teme la terra, un’invasione dell’acqua nel suo spazio e si armasse di molecole più scure.
E poi, oltre all’acqua e al cielo ci sono questi tepuy. Queste montagne che assomigliano a tronchi d’albero risalenti tra le nuvole, vissuti da Indios invulnerabili. Sono lì, del resto, con corolle di fiori intorno al collo loro e delle loro donne, appena distaccati nelle sale più piccole della Villa, illustrando un mondo che noi ammiriamo in cartolina, da perfetti falsoni-si fa per dire, ma non fa male dirlo-quando rimpiangiamo il tempo perduto non combiniamo nella per rimediarlo.
Ultimo e non ultimo, si è detto che l’acqua di Bergomi, quelle cascate derivano dalla sua infanzia. Nascono dai fontanili già illustrati delle basse, continuano nei fossi e nelle fontane mosse dalle sue lavandaie, si liberano nell’Oglio nuotato fino all’età giovane quindi proseguono, carsicamente, lungo il passaggio a nord ovest nel campo infinito delle acque. Ho sentito un bizzarro come il pittore dire che la congiunzione del Bergomi dei fossi e delle fontane con il Bergomi delle cascate e dei Tepuy avviene attraverso la linea congiuntiva dell’Oglio nel Po e quindi nel Mediterraneo-Adriatico e poi dell’Atlantico fino alla risalita dell’Orinoco alla somma delle cascate Venezuelane che lo riguardano. Certo, fantasie. Ma le acque, se non avessero nomi, sarebbero tutte acque e basta. L’acqua delle cascate e l’acqua dei fontanì. La globalizzazione è in natura. Non inventiamo nulla. L’arte, in fondo, congiunge ciò che ci siamo dimenticati. L’arte di Bergomi ci riesce per bene.

Da Bergomi, il mondo racconatato dall’acqua, in “Giornale di Brescia”, 8 ottobre 1999.


CHIARA BERTOLDI

Sebbene meno conosciuta rispetto ai dipinti, l’opera grafica di Giacomo Bergomi rappresenta un’ampia e straordinaria – sotto il profilo qualitativo – componente dell’intera produzione artistica. Bergomi fu un grande disegnatore. Il segno è profondamente inciso e precede, anche temporalmente, la passione per la pittura. La stessa solidità dei dipinti bergomiani poggia su un forte reticolo disegnativo.
Il dialogo tra gli oli e le carte è pertanto serrato e ininterrotto. Nei disegni, il pittore affronta gli stessi temi scelti per i dipinti: questo sicuramente non stupisce se si ricorda che i soggetti riprendono quelli che il Bergomi ragazzino era solito tracciare sui muri dei bianchi cascinali della pianura bresciana, ripetendoli, una volta cresciuto, durante il servizio militare, sulle pareti della caserma. Nelle carte, Bergomi coglie con maggior rapidità – e con uno sguardo altamente sintetico – la realtà del mondo rurale.
Una realtà che ha la necessità d’essere documentata sotto il profilo poetico, prima di un’ineluttabile estinzione. Un mondo che l’artista vorrebbe proporre come utopia dolcemente regressiva, in grado di ripristinare un orizzonte di valori all’interno di un mondo follemente proiettato nella bolla tecnologica del moderno. Bergomi ripercorre allora il filone che, per secoli, ha caratterizzato tutta la produzione artistica lombarda, in generale, e bresciana, in particolare. Il pittore orceano, pur con grande naturalezza e libertà – e soprattutto attraverso uno stile molto personale – porta avanti un discorso abbracciato dal padre della pittura bresciana, Foppa, elevato a somme vette da Romanino, Moretto e Savoldo e divenuto “poesia degli ultimi” nelle creazioni di un milanese trapiantato nelle nostre terre, il Pitocchetto. Spesso accade che gli artisti si sentano più liberi nel momento in cui abbandonano i pennelli e scelgono il disegno: meno vincoli, maggior rapidità di esecuzione. Quasi una scrittura automatica che consente di individuare, sotto il profilo segnico, il nucleo da cui si diparte il tracciato pittorico. Ed è così che l’amore provato da Bergomi nei confronti del mondo rurale – bresciano, pugliese, greco o andino – appare prepotentemente, scabro e primario, nei disegni, divenendo nucleo scatenante di ogni segno. Come nei pitocchi del Ceruti, l’artista orceano promuove una visione compartecipe rispetto al mondo popolare. Anche in Bergomi si rivela infatti una profonda complicità, la sottolineatura di un convergente sentire. […] Ma se talvolta l’artista presta maggiore attenzione alla rappresentazione dal vero – con l’osservazione degli amati utensili, raccolti, collezionati, censiti e utilizzati nell’ambito delle composizioni – moltissimi sono i fogli nei quali tutto ha il sapore di un rapido bozzetto creato per catturare un istante fuggitivo di vita contadina, preso per il lembo della memoria. Il colore viene così a perdersi ed il tratto si fa rapido e nervoso, quanto sicuro di sé.
Pochi elementi sono infatti sufficienti a catturare e racchiudere un’esplosione di sentimenti.
I disegni e gli oli non sono accomunati solo dalla presenza ricorrente dei visi dei contadini o dalla testimonianza del lavoro nei campi. Immancabili ritornano i cascinali – più lievi, meno influenzati dall’osservazione monumentale di Carrà -, gli interni vuoti e semplici – quanto profondamente intrisi della ricordanza di un’umana presenza -, le lavandaie e le biciclette.
Il tratto èmolto rapido ed estremamente preciso, portatore di un virtuosismo di resa straordinaria. Nei disegni crescono anche i segni della modernità. […] Irruzioni che sono osservate con l’aura del prodigio, ma che rappresentano l’ineluttabilità di un processo storico avviato ormai alla cancellazione delle tracce delle origini. Tutto ciò è, al contempo, poesia e realtà. Gli acquerelli, i carboncini ed i pastelli di Bergomi permettono di comprendere e conoscere meglio la produzione e la poetica di uno degli artisti bresciani più significativi e completi del secolo da poco conclusosi. Uno degli ultimi cantori di una realtà che torna ad essere viva attraverso il suo ricordo.

Da Straordinario disegnatore“, Stilearte”, a. X n. 91, settembre 2005.


M. BERNARDELLI CURUZ

La forte, scabra poesia delle origini, inserita in un tessuto pittorico colto, quello che, nel Novecento, sviluppò un’osservazione dei cosiddetti primitivi italiani – artisti che precedettero la grande, illusoria rivoluzione rinascimentale – costituisce il principale elemento per la comprensione delle scelte linguistiche e stilistiche di Giacomo Bergomi.
Una semplicità programmata, che in realtà tiene conto fortemente dei valori plastici espressi nella pittura post-giottesca, fino ad arrivare a Mantegna, dalla cui osservazione il maestro bresciano trae la statuarietà ieratica dei suoi personaggi.
Tutto, in Bergomi, è mosso fondamentalmente dall’idea che, prima di Raffaello, l’arte si misurasse senza finzioni con la realtà solida della materia, senza l’illusoria, fotografica verità che avrebbe caratterizzato la pittura, tra il grande big-bang del Rinascimento fino al Novecento inoltrato.
Un ritorno alle origini, quindi. Nonostante i soggetti fossero legati al mondo degli ultimi, il linguaggio sviluppato da Bergomi è fortemente aggiornato, sotto il profilo dell’esplorazione delle filosofie pittoriche del secolo scorso. E non è un caso che, nonostante la freschezza apparentemente sorgiva dei dipinti, questa poetica semplicità – in grado di apparire allo spettatore, in alcuni casi, anche con le caratteristiche della selvaggia fragranza – sia dovuta non tanto al gesto istrionico e all’ispirazione orfica dell’autore, in grado di intercettare l’alito del grande spirito degli antenati, quanto ad un approfondito studio della storia dell’arte e alla formazione accademica che consentirono a Bergomi di comprendere che la pittura, prima ancora d’essere un fatto estetico, è un’avventura intellettuale.
Per capire l’approccio intellettuale alla materia narrativa, basterà confrontare […] i dipinti di Bergomi con quelli di Ottorino Garosio, due contemporanei che ebbero modo di cantare i mondi contigui delle civiltà contadine e montanare. Ma se il primo, sotto il profilo compositivo mostra sempre il frutto della saldezza della propria preparazione, attraverso impaginazioni nette e sicure, monumentali trattamenti delle figure, salda gestione degli impianti chiaroscurali, matura tecnica delle stesure, il secondo rivela un approccio emotivo, suscitato da un’osservazione diretta della realtà riprodotta attraverso sintesi personali, che, in molti casi, mostrano l’esilità dell’impaginazione, proprio perché Garosio risulta, forse inconsapevolmente, un autore post-fauvista che scende alle radici dell’espressione popolare.
Nulla cioè può unire, sotto il profilo pittorico, due tra i maggiori maestri dell’arte bresciana del secondo Novecento se non il convergente interesse tematico nei confronti di un mondo – quello contadino e montanaro – estinto o in via d’estinzione.
Un recupero della civiltà contadina che, per entrambi, è comunque frutto dell’adesione sincera a quanto, in quegli anni, in seguito agli studi di antropologia e alla diffusione delle Annales – che contribuirono, a livello generale, a un modo nuovo di scrivere la storia, attraverso le azioni, le sofferenze e i ruoli svolti dalle classi popolari – permeava la società italiana. Non è infatti un caso che, mentre Bergomi sviluppava le sue ricerche dedicate alle cascine e agli uomini dei campi, l’editoria bresciana risorgesse proprio con numerosi studi dedicati ai nostri micromondi, tra antropologia e storia.
Il clima era quello. Da un lato il percorso scientifico del recupero storiografico relativo al mondo dei campi, dall’altro, a livello popolare, la certezza che il mondo industriale avesse cancellato irreversibilmente gli equilibri di una vita dura, ma a contatto con l’elemento naturale. Bergomi fornì pertanto le icone sacralizzate, attraverso le quali migliaia di inurbati esercitavano ricordi e nostalgia in una società che era cresciuta troppo rapidamente. Egli si aggiornò, studiò, scattò immagini, raccolse oggetti della civiltà contadina, guardò con estrema attenzione i pittori del passato – tra i quali, indubitabilmente, Pitocchetto, dal quale fu fortemente influenzato, soprattutto a livello del tessuto scenografico e nella delineazione delle macchiette – per fornire l’anima veridica di un mondo archiviato dalla storia.
Il senso dolciastro della commemorazione è sempre evitato da Bergomi attraverso la solidità compositiva e la monumentalità dei personaggi – che pongono i suoi contadini in una dimensione poeticamente-epica -, mai inclinata al crepuscolarismo pittorico e al pianto, anche quando, specie nell’ultimo periodo, quello delle “nevicate”, l’ambiente si raggela e le cascine deserte sopravvivono esclusivamente come gusci freddi, svuotati di suoni e di uomini, come ammoniti precipitate in una nuova glaciazione.

Da “Stile arte”, settembre 2006


MAURIZIO QUARTIERI

Mai mi è capitato di stendere la critica su di un artista, che coinvolgesse una essenzialità tanto ridotta di parole, come con GIACOMO BERGOMI.
E sono certo, che anche Lui avrebbe voluto ciò.
Chiamarla volontà (dato che egli non è più fra noi, sarebbe fin troppo facile eludere tale suo intendimento), è riconoscergli il carattere radicalmente onesto che possedeva, in pittura al pari che nella vita.
Definirlo un suo diritto sacrosanto, significa invece rispettare oggi i temi di morale e di pensiero, che per lo stesso erano motore, oltre che carburante per muoverlo. Intendo cioè, quel deposito (intatto e profetico) di valori, che Giacomo non avrebbe mai rinnegato, forte del verdetto di veridicità che la Sua Arte gli garantiva.
Quando ho conosciuto i componenti della sua Famiglia, mi si è squarciato il velo che frenava le ultime sensazioni: essi sono il suo “specchio ideologico”, naturale e cristallino come le pennellate del Maestro. Sono così, perché la loro spontaneità di comportamenti è cresciuta assieme a Bergomi, con la genuinità di un’erba che si rafforza, se acqua, luce e sostanze, la alimentano nelle anse di un ambiente ideale.
Il tutto è maturato (ne sono ulteriormente certo), senza obblighi o pressioni, nella lenta e meditata successione dei giorni, riflettendo in esclusiva, sugli “scalini della vita”: percorso inevitabile per tutti, siano questi ricchi o poveri, sapienti o illetterati, inermi o potenti. Bergomi aveva compreso ogni cosa di queste regole semplici (gli uomini però le disconoscono, afferrandosi agli splendori finti dell’effimero, per “fotografarsi” diversi), e lo tracciava in pittura, uguale che nella “Casa” dell’esistenza quotidiana.
Vivere come si dipinge, ovvero…. dipingere come si vive, è nel contempo civismo, dovere, religione e giustizia bilanciata: i termini di Dio e dell’Uomo, da sempre dettati, ma ogni volta disattesi, perché gli “idoli” dell’opulenza, muovono più delle coscienze.
Giacomo non ci sentiva dall’ “orecchio della convenienza”, che illude e male consiglia.
Egli credeva nelle ricchezze vere, quelle che mai tradiscono e nemmeno… offendono l’anima. I suoi colori ed i temi che trattano, sono stati fin dal primo colpo di pennello, un profetico “testamento diverità”.
Sicuramente i propri paesaggi, le case “vive”… od al contrario colpevolmente “morte”, la sua Gente (autoctona o straniera che sia), sono stupendi soggetti dipinti, eppure richiudono nella materia qualcosa di più.
C’è una parte interna, un “nocciolo umano”, che fa pensare (e pentire), per tutto ciò che si è perso, con l’imperdonabile sufficienza del tempo attuale.
Essere pittore e profeta: le “virtù eccellenti” per qualsiasi Artista che voglia lasciare il segno!
Bergomi lo deteneva dalle origini un simile “DNA”, e ne ha esercitato le funzioni con istintivo impegno. Non andrebbero solo esposti alle pareti i suoi quadri: sarebbe, al contrario, giusto tenerli al nostro fianco, appoggiati vicini, perché ci guidino, o quanto meno ci dicano le cose che egli provava, obbligandosi poi a tradurle, perché esse potessero insegnare il proprio “Vangelo” agli altri. Che la si chiami così o che la si percepisca nei suoi dettami policromi, la “verità rivelata” di Bergomi è d’obbligo parola di pace e di sognate provvidenze, da consegnare a chi ha bisogno e soffre.
A questo punto, quali aggettivi e che sostantivi, hanno diritto di avere impiego nell’Universo Bergomiano? […] Eccoli dunque: comprensione, comunanza, dignità, rispetto, amicizia, onore, impegno, coraggio e spiritualità, sono le “parole” di Bergomi, mentre affaticato, dolente, fantasioso, tradizionale, umile, sacrificale, pulito, ossequioso, devoto e fedele le proprie “colorazioni aggettivate” di quei sostantivi.
Che altro manca in tale equilibrio artistico di impensabile valore?
Non mi sentirei d’aggiungere altro. […]
Modena, ottobre 2007

Da AAVV, Giacomo Bergomi. Il colore dell’incanto, Bergomi e il miracolo delle aristocratiche modestie, 63 opere del Maestro nella Collezione Merlini-Maffoni, Rossana e Samuele Editori, Comezzano (Brescia) dicembre 2007.


SILVIE MOREAU BENGUELLE

Fino al momento in cui, un caro amico mi ha chiesto di occuparmene, conoscevo GIACOMO BERGOMI in modo del tutto parziale.
Sapevo di una sua personale a Parigi, che aveva riscosso successo, ma poco di più.
Mi ricordavo d’istinto, del suo colorismo energico e combattivo, congiunto a figure ed impianti scenici, dalla forte capacità di narrazione.
Ma il mio settore di studio (tardo Rinascimento e primo Barocco) era un altro, per cui non potevo essere preparata oltre tale conoscenza, intromettendomi nello specifico della sua arte.
Invece, nel momento in cui l’amico mi ha inviato il bel catalogo monografico, stampato nel 1983 dalle “Edizioni del Moretto” di Brescia, con l’introduzione di Luca Goldoni e la presentazione di Giannetto Valzelli, un inedito palcoscenico di quella pittura che io amo, ha schiuso i propri sipari, distendendosi plateale alla mia ricezione.
“L’UMILTÀ DI UN MESTIERE INSIGNE: ho titolato così questo mio breve sunto critico, perché ritengo che a Giacomo Bergomi, tale asciuttezza di termini sarebbe piaciuta molto.
È vero: io lo trovo “umile”, fra certe vanità inutili di questo mondo dell’effimero, ma nel contempo “orgoglioso” ed estremamente altero, nell’affermare le proprie direttive di dottrina morale.
Non l’ho mai conosciuto, eppure mi va di affermare, che in Bergomi esistono le situazioni ed il loro “contrario”, in movimento perenne, fino a che lui decide di firmarne il “saldo” con il colore.
Il giudizio finale, (con un’intelligenza collaudata, lo ha concordato sul pennello, assieme ai suoi principi), ogni volta è esatto.
Nel suo lavoro, trovo pigmenti scuri, che intrecciano tinte pastello, per dettagliare i contorni di un caseggiato.
Incontro piedi e mani “fuori standard”, alle estremità di corpi esili, cresciuti nella fame.
Sorrisi enigmatici e plateali esibizioni di tristezza o ilarità.
Aggregazioni di umanità e solitudini dalla pesantezza radicata.
Ultima deduzione: in gemellaggio con quanto dice Luca Goldoni, attento selezionatore di ironie e perimetri filosofici, trovo che Bergomi metta “a temprare” le rievocazioni di noi bambini, attizzando la fiamma con la responsabilità che nella crescita, accreditiamo alla nostra condizione di adulti.
Non esiste alternativa: i suoi quadri ti frugano dentro, allo scopo di mettere in riga le priorità. Per lui i vincoli di famiglia, i sacrali diritti della terra, la sopranazionale dignità dell’uomo, il rispetto per la “scatola-mondo” che ci ospita, aggiunti alla castità del cuore, sono “stanze”, dentro le quali è necessario soggiornare, se si vuole
ancora avere le fondamenta del sostegno primario. Altrimenti ogni palafitta vacillerà. Se non si crede a ciò, inutile è approfondire la visione di un’opera del Maestro.
Rischieremmo di impantanarci in miglioramenti di sola facciata, deludendo lo “spirito” di Bergomi.
Egli (su ciò non ho dubbi), cavalca ora da moderno “Don Chisciotte”, sui percorsi della Mancia.
Nessun mulino od alcun’altra sopraffazione lo spaventano: tutto è nella “norma” che lui sovrintende, se non fosse che la tentazione a “fare orecchie da mercante”, è troppo forte per tanti. Lo è in particolare, se suggerita dalla convenienza.
Bergomi invece, non le ascolterebbe mai le “sirene” dell’illusione. Con un colpo di sperone ed un altro (di pennello), sarebbe già dentro
una nuova missione!
Lui, per l’affermazione delle “ragioni”, la faccia ed il lavoro (la sua pittura, per intenderci), se li è sempre giocati, evitando di pensarci troppo su!
Parigi, 9 settembre 2007

Da AAVV, Giacomo Bergomi. Il colore dell’incanto, L’umiltà di un mestiere insigne, 63 opere del Maestro nella Collezione Merlini-Maffoni, Rossana e Samuele Editori, Comezzano (Brescia) dicembre 2007.


ANTONIO BOATTO

La mia ammirazione per il pittore Bergomi, non proviene da una lunga frequentazione, ma da assidui incontri con le sue opere presenti nella collezione Merlini Maffoni, assai rappresentativa dell’intera produzione dell’artista. Uomo solido della bassa bresciana, egli mette in evidenza fin dagli inizi le caratteristiche di semplice, calda e solida umanità e di attaccamento alla sua terra. L’amore per la quotidianità delle cose fatue esposte al fluire silenzioso e ineluttabile del tempo, sono doti tipiche che Bergomi condivide con tutti i creativi, pittori, scrittori, registi e poeti che, nati nella piana, ne hanno ereditato e celebrato le tradizioni culturali, nell’intento di comporre, esaltare e mitigare insieme, le dicotomie e distonie della convivenza sociale. Attento alle realtà più umili, colte nel divenire senza sosta delle attività contadine, le ferma sulle sue tele e, filtrate da una luce polverosa, le trasferisce per sempre nel regno dei miti. Non dipinge il nuovo che non ha storia, ma il presente, vecchio d’esperienza e scavato dall’impasto terroso e denso, tra ombre e luci, dei suoi colori. Cerca di smuovere l’inamovibile, persino le case saldamente piantate a terra; lavandaie e contadini sembrano entrare e uscire dalle sue tele, e scavalcando la cornice, prendere possesso dell’ambiente circostante. Figure femminili robuste e piene di dignità, accanto a fragili profili di ragazze prese da malinconica attesa. Nel suo apparente realismo, s’insinua la forte azione interpretativa tesa a quell’astrazione simbolica che si chiama poesia, senza la quale ogni forma sedicente artistica nasce morta dalle mani stesse dell’artefice. Si muovono i personaggi con dignità, con gesti quasi sacrali, che l’abile pennello fa emergere e che la luce sfalda nella terra fertile, ocra e grassa che si estende palpitante sino alle rive del grande fiume. Le sieste intercalano il duro lavoro per un recupero di forze, per ricaricare la molla del trenino. Con l’esperienza sudamericana, i contadini bresciani mettono le vesti degli equadoregni: stessa fatica, stesse povertà e dignità sotto altro cielo e diversa altitudine. Anche quando il volume delle cose s’appiattisce e il linguaggio pittorico balbetta, l’approccio alla realtà rimane ricco e intenso di stupore; sembra di udire i rumori dei carri in movimento, sentire il profumo dei fiori di campo, l’odore dell’erba tagliata e quello acre del letame sparso. I calcinacci ammucchiati dietro le cascine, hanno il colore della terra arsa dal sole. Tutto è vita della sua vita, carne della sua carne, storia della sua storia, viaggio nei suoi viaggi gitani dietro le carovane che vanno senza sosta tra i ruderi di antichi monasteri. Come di ogni vero artista, che affascina è il suo lato oscuro: ciò che voleva essere e non è stato, ciò che voleva dire e non gli è riuscito di esprimere, nonostante la spasmodica ricerca di un giorno senza ombre, di una notte calda di sole, di un colore e di un segno irraggiungibili, cioè del sogno irreale che ogni artista coltiva: capovolgere la realtà restandovi immerso. Nei suoi quadri luce e oscurità vanno a braccetto, convivono e si esaltano a vicenda in colpi di chiaro estesi e in zone larghe d’ombra. Bianche lenzuola scosse dal vento, che non sono aquiloni di bimbi, bensì manifesti agitati in adesione alle condizioni esistenziali della propria gente, simboleggiano la ricerca del pulito che ognuno ha dentro di sé e che ritrova speculare negli atteggiamenti decisi e sicuri delle figure femminili, peraltro dai lineamenti sommessi e delicati, assai presenti nella sua produzione. Avvolto da un’atmosfera rarefatta d’indicibile contingente quotidianità, da istanti sfuggevoli e fatiche impietrite nel tempo, il suo messaggio d’artista arriva a chiunque lo voglia leggere nei suoi numerosi dipinti e in particolare nella presente collezione. Un inno agli avvenimenti minimi della storia, accorsi e velocemente dimenticati, quasi delle banalità che ti piombano addosso senza preavviso, che s’avverano e subito si sfaldano, come un temporale catartico che minaccia e poi lava un’apparente quiete provvisoria.
S.Stino di Livenza (VE), ottobre 2007

Da AAVV, Giacomo Bergomi. Il colore dell’incanto, La poetica di Bergomi, 63 opere del Maestro nella Collezione Merlini-Maffoni, Rossana e Samuele Editori, Comezzano (Brescia) dicembre 2007.


AGOSTINO GARDA

È un ritorno a casa questo di Giacomo Bergomi a Lograto, dove ha vissuto parecchi anni della sua giovinezza.
È anche un’ospitalità amabile questa che si celebra nella splendida Villa Morando che già fu cornice suntuosa a cascate, cascinali, ladri di polli e mangiatori di cocomeri. Fortunatamente nulla di nostalgico o di già visto in questo interessante percorso che l’arte di Bergomi, ancora, ci invita ad intraprendere.
Opere inedite che, dislocate nelle tre sale del piano terra, catturano per l’immediatezza e la profondità delle immagini evocate. Quando il talento si coniuga alla sensibilità del saper comprendere l’anima di ciò che si vuol rappresentare, non servono né grandi formati, né minuzie descrittive, né accessori decorativi. E Giacomo, come testimoniano i carboncini della prima sala, coglie lo spirito della nostra Bassa, del fiume Oglio e delle cascine, dei canneti, delle nevicate, delle piccionaie su torrette nobili come sentinelle. Qua e là uno spolvero di pastello per precisare un’emozione.
Scampoli di terra sempre più rari perché l’aggressività postmoderna inneggia, nei fatti, alla cementificazione.
Opere documento per sostenere i volti segnati dalle rughe modellate da fatiche di sempre, dall’essere contadini e contadine per passione o per forza. Nelle misurate concessioni di colore l’artista non si compiace nella narrazione, il rosso del cocomero c’è per rimarcare la fame del volto che si affonda nel frutto. È nobile e fiero lo sguardo dell’uomo e della vecchia, quasi rituale il gesto della lavandaia che sciacqua panni al fosso.
Assolutamente pudichi i nudi della terza sezione. Perle di suggestione, di immaginario femminile, dispiegate con gesto rapido, sicuro, competente di un’anatomia più vissuta che scolastica. Intensi gli sguardi degli occhi a mandorla ora socchiusi, ora sgranati, ora sottolineati dal trucco per imprimere ancor più leggiadria alla perfezione degli ovali.
Una mostra di grande interesse che appassionerà critica e pubblico perché é trionfo di sobrietà , cioé assenza di ostentazione, proprio come voleva il mondo contadino celebrato, senza apologia, quasi religiosamente, da Bergomi.
È rassegna di essenze nel duplice significato della parola: ciò che conta e ciò che emana profumi.
Qui si ritrovano l’uno e gli altri.
Borgo San Giacomo 5 novembre 2010.

Da Comune di Lograto, Inediti, Le grafiche di Giacomo Bergomi. Paesaggi, visi, figure femminili, Lograto, Villa Calini Morando 4 dicembre 2010-9 gennaio 2011. Invito.


GIOVANNA CAPRETTI

Pittore di cascine e campesinos, di donne e cascate, di cortili e porte socchiuse. Soprattutto pittore della memoria, Giacomo Bergomi, di quel mondo contadino in cui nacque (a Barco di Orzinuovi) e crebbe, che lasciò giovane per l’avventura della metropoli, che continuò a cercare viaggiando indietro nel tempo in paesi sempre più lontani (la Puglia, la Grecia, il Sudamerica), pescando nel ricordo, e che immortalò nella sua arte. “Oggi so che andrò spesso in giro per il mondo a ritrovare il mio passato” confessava all’amico Giorgio Sbaraini nel 1964, di ritorno dalla Grecia.
Lontano da qualsiasi tentazione naif e dal naturalismo stanco della tradizione bresciana, Bergomi preferì andare alla radice di una pittura che trovava negli umili e negli ultimi il soggetto prediletto, facendo di straccioni e salariati gli eroi della fatica quotidiana del vivere. Aveva certamente Giacomo Ceruti nella memoria, quando dipingeva i vecchi col loro cesto di poche cose (come i “portaroli” del Pitocchetto), le lavandaie chine sulla fontana, i contadini schiantati dalla giornata di lavoro, stesi a terra avvolti nei loro mantelli come sacchi abbandonati.
È per questo che Bergomi, anche sugli altipiani delle Ande, rimase profondamente bresciano e lombardo, riuscendo a non tradire la propria terra per un sogno esotico, ma anzi cucendo assieme dolore e fatica delle due parti del mondo. Mondo contadino, più vicino all’Albero degli zoccoli di Olmi che al Novecento di Bertolucci, più remissivo che ribelle, perché in fondo profondamente spirituale e malinconico. A dispetto dei cieli turchese, delle aie abbacinate di luce, degli abiti coloratissimi dei suoi personaggi.
Calibratissima nelle composizioni, affidate a volumi saldi e alla luce metafisica, la sua pittura non fa leva sulle emozioni ma trasmette un sentire profondo, oltre il tempo e lo spazio. Pittore vero, figlio del ‘900 nella modernità di un linguaggio fatto di sintesi della forma e libertà del colore, Bergomi lavorò fino all’ultimo alla ricerca del proprio stile, non per “moda” ma per coerenza. Perché sapeva che l’arte, coltivata con caparbietà e pazienza, era l’unica via per mantenere in vita quel mondo contadino che vedeva scomparire sempre più rapidamente giorno dopo giorno, assieme ai suoi valori. Consegnandolo alla memoria e alla storia.

Giacomo Bergomi, Associazione “Martino Dolci” – Fondazione Dolci, Bagnolo Mella (Bs) 2013.


MAURO CORRADINI

La biografia ci racconta che alla fine degli anni Quaranta Giacomo Bergomi si trasferisce a Milano per migliorare il suo talento espressivo, ma forse anche in cerca di occasioni che potessero ampliare il suo orizzonte; ha 26 anni, ha frequentato prima lo studio e poi la scuola di Emilio Pasini. Nel capoluogo lombardo si mantiene facendo il muratore, ma di sera può praticare la pittura in una delle tante “scuole serali”, dove venivano coltivate le passioni, le speranze e sovente anche i talenti. Attorno alla metà degli anni Cinquanta riesce a frequentare anche i corsi serali dell’Accademia di Brera; sono gli anni di Carpi, che appariva allora, agli occhi dei giovani allievi, come un “monumento” vivente, tornato vivo da Gusen (tra i pochi). Gli allievi di Brera davano vita in quel periodo a quel singolare movimento giovane, che Valsecchi chiamò, sulle pagine del neonato Giorno, “Realismo esistenziale”. Milano era attraversata da importanti percorsi di ricerca, tendenze, gruppi, con una predominante astrattista (Mac, soprattutto), che aveva preso l’abbrivio dalla prima mostra italiana sull’astrattismo, apertasi a Palazzo Reale nel gennaio 1947; essere astratti, o astrattisti, all’inizio del decennio Cinquanta, significava o sembrava l’unico modo di essere moderni.
Bergomi (con tantissimi altri) rimane fedele alla pittura su cui era nato il suo talento. Una piccola tela, datata alla metà degli anni cinquanta (Porta Ticinese, 1955), ci dà il senso della sua pittura in quegli anni: un’atmosfera tonale, costruita sui grigi di una nebbia che sembra quasi impalpabile e tuttavia definisce le cose, le strutture del luogo; tutto ci appare come se le case e le persone fossero sagome sfuggenti, appena accennate; e solo l’umido della strada, quel bagnato che esiste anche se non cade la pioggia, ha uno spessore materico, quasi tattile, carico di emozioni. È una eco della sua Bassa, ma anche abbastanza tacita della cultura chiarista, che dipingeva le cose con la leggerezza di una tattilità soffusa. Pagina di umori che vengono da lontano, da una cultura sempre viva nel cuore del realismo novecentesco.
Il passaggio – sono passati dieci anni – si può leggere nella “Lavandaia”, 1964, dei Civici Musei. L’ha donata lo stesso autore, insieme a numerosi altri protagonisti dell’arte di casa nostra, nel 1964, l’anno stesso dell’esecuzione; si voleva aprire una Galleria d’Arte Moderna in città e, come sempre, gli artisti sono stati generosi. Bergomi ha scelto un’opera d’impegno, una figura che ha la forza e il vigore della grande stagione realista, una sorta di potenza, che è ad un tempo un atto d’amore per le sue origini contadine e un atto d’amore per la cultura realista che, dopo l’astrattismo, altre tendenze più dirompenti, venivano mettendo in discussione. Bergomi afferma una scelta, precisa un ambito; e indica un mondo poetico. E su questo suo radicalismo espressivo, costruito di sintesi e di consistenza “cosale”, si può individuare una sorta di continuità, anche nel mutar degli stimoli e dei temi, anche nel mutar dei percorsi; può cambiare tutto, ma “le cose” hanno lo stesso bisogno di forza e consistenza, dal “Vicolo Borgondio” dei primi anni Sessanta, alla “Piattaia” dello stesso periodo; è un indiretto percorso, in cui il pittore sa declinare ciò che ama emotivamente con il vigore di una pittura riaffermata, in cui è cresciuto e si è riconosciuto non solo il nostro pittore ma un’ampia stagione della pittura narrativa.

Da Bergomi, una storia, in “Bresciaoggi”, 18 gennaio 2014.